La Cripta dei Cappuccini di Roth mi accompagna da quest’estate, ed è stato un pensiero fisso, e una complicazione senza pari, cercare quell’appiglio per trovare il modo giusto per raccontarlo.
Il punto è: quando ti comincia a piacere lo stile con cui descrivi i libri letti e quando questo modo comincia a diventare pericolosamente vicino a quello che avresti voluto trovare altrove, allora, raccontare, di un libro, così tanto per dire qualcosa non ti basta più.
Ed è molto probabilmente per questo motivo che ci metto tanto a far uscire una recensione che, di base, è molto semplice: ho letto un libro che, sì, mi è piaciuto molto ma che però, no, non è riuscito a sopravvivere al passaggio del tempo e, questo aspetto, mi è piaciuto molto meno.
Nonostante sia osannato in ogni dove dalla critica letteraria, il lavoro di Roth non ha retto il passaggio del secolo e, forse, nemmeno quando sono nata io era così valido. Il problema sta tutto qui: guardare a questa storia in due modi diversi per tirarne fuori pregi e difetti.
Uno sguardo pessimista raccontato con una prosa affascinante
Se da un lato infatti, è un lavoro notevole che regala, come critica vuole, immagini di una bellezza poetica senza fine e, quello che la critica non dice, con una prosa contemporanea e scorrevole, per nulla barocca, dall’altro, l’imperante pessimismo di un disilluso reduce della guerra che guarda al futuro come la tomba di un mondo, il suo, dimostra in parte una mancanza di visione in prospettiva finendo per regalare al lettore la vista solo attraverso il proprio antieroe.
La storia in estrema sintesi
È così che il giovane rampollo, di ritorno da una guerra che non ha nemmeno vissuto, guarda a quello che ritrova in una Austria che, nel frattempo, ha perso il suo imperatore. Quel ragazzo che prima della guerra, si faceva beffe dei parenti poveri sloveni, ora si ritrova ad essere nella loro condizione, anzi peggio, perché a differenza di loro si rende conto di non essere di alcuna utilità al mondo. E così si siede, accanto all’ignaro lettore, guardando svolgersi la vita altrui e lo sgretolarsi di un mondo che aveva divisioni nette e in cui sapeva quale fosse il suo posto.
L’eterno dilemma dei libri che ti piacciono tanto ma che sei che hanno un neo
E, badate, io questo libro l’ho davvero adorato, mi piace la prosa di Roth e anche il suo sguardo per nulla traverso alle cose: lui le guarda dritte in faccia, quasi a sfidarle e riesce così, in un pugno di parole, a descriverle in maniera precisa e nitida. Così in quello che è uno spaccato storico ricostruito ad arte, in ogni sua cesellatura, si apre una profonda crepa quando, finito e messo da parte il libro, ti ritrovi a tirare le somme di quello che hai letto. Non c’è significante, non c’è nulla che rimarrà oltre quella sorta di empatia verso le immagini evocate. Sono quelle di un mondo che nell’ansia di cambiare non sa bene da che punto iniziare, e così si affanna correndo qui e lì e provando ad imitare qualcosa che non ha mai visto e di cui però ha sentito parlare.
Scrivere per rimanere
Ed è proprio qui che ti accorgi che quel quadro disegnato non passerà il secolo, ma rimarrà l’immagine di un mondo oramai dimenticato. Il lavoro di Roth manca di una visione messa in prospettiva perché nel suo rappresentare la disillusione di coloro che non riescono a cavalcare il cambiamento, volutamente, dimentica di lasciare una porta aperta a coloro che invece non si siedono. Nella sua ansia di descrivere le vestigia di un mondo che cade, Roth si mette dal lato di chi, quel cambiamento non lo ha mai voluto e quindi lo rifiuta con tutte le sue forze riducendosi da solo, davanti ad una cripta, a suo modo vuota, che racchiude il corpo senza vita dell’imperatore.
I resti di un quadro non riescono a raccontare l’opera generale
Mi si potrebbe dire che lo spaccato che racconta, rappresenta una porzione di mondo, un punto di vista e potrei anche parzialmente essere d’accordo, ma solo in parte. Non rappresentando però il quadro completo la storia si sgonfia, assumendo le fattezze di una tela tagliata di cui, l’unica parte rimasta in piedi, è solo un piccolo angolo. Quell’angolo potrà anche essere dettagliato, colorato quanto lo si vuole, ma non riuscirà mai a restituire, nemmeno lontanamente, il significato generale dell’opera. Ed è un vero peccato, perché, un libro così tanto osannato, si limiti così tanto da non essere in grado di guardare oltre il muro, perché, oggi, nella società che viviamo e in cui siamo immersi, impariamo a guardare oltre il muro ogni giorno.

Se così non fosse, saremmo stati già tagliati fuori da ragazzini. Se la storia si ripete, come dicevo in una vecchia recensione di un libro di Morelli, perché ha probabilmente poca fantasia è però anche vero che gli uomini alla fine imparano a essere resilienti e ad attutire il colpo adattandosi al nuovo mondo che si ritrovano a vivere. Lo fanno oggi e in buona parte lo hanno sempre fatto; solo che nel focalizzare la sua visione in modo diretto, Roth regala alla sua storia una sorta di bidimensionalità che taglia fuori anche questo aspetto che invece avrebbe potuto amplificare e qualificare il senso di sgomento che è il vero cuore di questo romanzo.
Angioletti prosa pesante ma visione articolata
Sono giorni che sto ripubblicando le vecchie recensioni, che sto editando nuovamente per riadattarle al nuovo format del blog (una faticaccia perché io sono il peggior critico di quello che scrivo e perché il mio stile è decisamente cambiato nel tempo!), e ad un certo punto mi è capitata fra le mani quella de La memoria di Giovan Battista Angioletti e mi sono accorta di questa strana casualità: i due scritti, sebbene molto diversi fra loro -il Premio Strega è una raccolta di racconti autobiografici di una società che si affaccia al 1900- si spiegano l’un l’altro, non tanto per i contenuti ma proprio per il punto di vista.
Angioletti, prosa pesante e un po’ lenta, racconta di un mondo che sta vivendo un cambiamento; di classi sociali che devono riscrivere nuove regole per trovare il loro posto nella nuova gerarchia sociale ed economica. Eppure il suo lavoro, che per me è stata un’impresa leggere scritto così com’era, non si limita a raccontare di chi rimane indietro ma anche di chi va avanti. Ne esce un passaggio di testimone che racconta di passaggi generazionali che non dimenticano da dove sono venuti.
Roth si chiude al mondo prima ancora del suo protagonista
Per contro Roth sceglie di iniziare da un momento qualsiasi della vita del giovane Trotta e lo restituisce, a quello che sarebbe stato il suo mondo, alla fine del primo conflitto bellico. Ma per focalizzarsi sugli effetti nefasti del cambiamento si premura di far sparire chiunque, i familiari, la moglie, il figlio. Nulla rimane o, se lo fa, sbiadisce notevolmente e c’è un motivo ben preciso perché sia così: deve asservire al punto di vista drammatico che è la caratteristica di questo scritto.
E questo modo di operare sull’architettura della storia ci regala sì un romanzo affascinante ma che rimane solo un quadro, parziale, di un mondo e null’altro. Permea un pessimismo, che si contrappone alla resilienza connaturata all’umano vivere, che offusca qualsiasi aspetto di una vita che sembra tagliare fuori chi non fa parte della generazione entrante, che ad oggi rappresenta una fetta minoritaria di generazioni che rifiutano di adattarsi o che non ci riescono, non dicendo altro. Al lettore non rimane che tirare le somme: essere affascinato dalla scrittura, dall’acume, e dalla poesia, per certi versi lugubre, di un marito e padre che già prima che il figlio cresca ha già dato l’addio a questo mondo spiritualmente.
In conclusione
Lo rileggerei? Altre cento volte probabilmente, per quanto mi piace la scrittura di Roth e molte delle immagini create. Lo consiglierei? Probabilmente sì, per capire quale sia l’anatomia di un antieroe ben costruito fin nei minimi particolari. Ma se dovessi puntare su una storia completa e diretta, che possa rimanere da memento per tutti noi, al prossimo passaggio generazionale o a quello in atto ora, forse, questo, non sarebbe il libro giusto. Peccato, sarà per il prossimo Joseph Roth.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
La Cripta dei Cappuccini
Joseph Roth
Adelphi Edizioni, ed. 1989
Traduzione a cura di Laura Terreni
Collana “Gli Adelphi”
Prezzo 10,00€