L’incubo di Hill House è un libro che ho in casa da anni. Mi è stato regalato dopo che ho rotto le scatole a mezzo mondo su quant’era bella la raccolta di racconti de La lotteria. Ma, a sorpresa, al momento di scegliere la lettura successiva, al tempo, gli preferii invece Lizzie che aveva una storia che mi sembrava particolarmente geniale se si guardava alla trama e al periodo in cui era stata concepita e scritta. Sembrava fosse amore e, invece, ci rimasi male. Quella storia che fino a metà libro mi aveva conquistato, aveva poi perso di smalto nella seconda parte e, quindi per lungo tempo, oltre continuare a raccomandare a tutti La lotteria, non avevo letto altro.
Poi quest’estate ho letto un altro paio di racconti pubblicati da Adelphi in una piccola raccolta digitale e alla fine, complice il Gruppo di Lettura di CasaSirio e la mia proposta di un libro che mi ritrovavo spesso in giro per casa, ovvero questo, non solo è stato letto, ma è anche stato argomento di discussione serratissima a Dicembre, il mese più buono dell’anno. Adoro il mio gruppo di lettura quando si fanno queste cose!
Di case infestate e architetti improvvisati
Di Hill House si dicono tante cose, in parte perché chiunque vi abbia vissuto dentro, non solo era una persona caratteristica ma anche con un approccio monastico alla vita, in parte perché il fatto che sia così isolata e che l’edificio abbia un aspetto così grottesco non aiutano affatto a crearsene un’immagine positiva. Insomma se stai lì, a quanto si dice, non è detto che tu ne esca. Almeno i paesani del vicino agglomerato di case la pensano così.
Di questa casa all’inizio sappiamo poco, a parte che cambia l’umore dei paesani succitati, che dovrebbe essere luogo caratterizzato da non ben specificati fenomeni paranormali e che, questi, dovrebbero essere collegati alla prima famiglia che vi ha vissuto, ovvero quella dell’architetto che l’ha progettata e, infine, che influisca negativamente sulle vite di chiunque vi sia trovato a viverci successivamente.
Ci sono due punti in cui la discussione è andata per le lunghe: il brividino e cos’è un horror. Io a questi aggiungerei i sospesi, che secondo me sono la caratteristica peculiare di questa storia. Il brividino e l’horror vanno a braccetto perché chi lo ha letto si è diviso fra chi ha sentito almeno una sorta di malessere e chi invece manco il brividino, chi pensava di leggere un horror e invece si era ritrovato una storia in cui la parte del leone la faceva l’aspetto psicologico. È stata una discussione lunga e accesa, ma una delle cose che ho notato è che chi lo aveva letto tutto d’un fiato, il malessere l’aveva percepito e chi, come me, l’aveva letto a puntate invece no.
Idee contemporanee, svolgimenti a volte no
Ora, a me, questa storia è piaciuta molto ed è piaciuta per il suo essere unica nel suo genere in un periodo storico come la metà del ‘900 e per il fatto che sia stata scritta da una donna. A Shirley riconosco il merito di aver concepito idee per storie che avessero un aspetto sempre contemporaneo (anche nel caso di Lizzie questa componente c’era). Ma è un dato di fatto che, dai tempi in cui è stata scritta, il genere è comunque andato avanti, perdendo quegli aspetti gotici che lo caratterizzavano e prendendone altri, splatter mi sembra che si dica, che molti oggi individuano come peculiarità del genere e che a me proprio non piacciono.
Quindi sì, secondo me, in questo caso parliamo di un horror classico, sì ha un sacco di cose accennate -per le quali non si sa quanti accidenti le ho spedito!- che non spiegano mai subito e in maniera chiara le motivazioni ma che poi, a libro chiuso, capisci perché sono necessarie.
L’edificio che ci mette lo zampino
Ad aggiungersi a tutto questo, la questione della casa. L’edificio in questo caso è trattato come “azione di avvio” di tutta la vicenda e sta là, spuntando qui e lì nei i paragrafi, a ricordarti -ehilà, ti ricordi che devi avere paura?- che l’azione che dovresti ritenere principale si trova in quel luogo e non altrove, tipo nei ricordi degli attuali residenti o nella nenia della coppia cuoca-giardiniere che, più che protettivi, sembrano proprio scocciati di dover lavorare.
Anzi, a dirla tutta, quella della cuoca è uno stacchetto divertente che ti permette di misurare il tempo in cui si sta lì dentro e, continuando a ricordarti che le giornate passano, ti rende tutto ciò che avviene più incombente e veloce. Un’altro espediente utilizzato durante tutta la storia è anche lo spazio destinato ai pasti e al dopocena; sono occasioni che servono funzionalmente come momenti di spiegazione e correlazione di causa-effetto e in parte ad anticipare mosse successive dei protagonisti che, senza spiegazioni aggiuntive, potrebbero sembrare senza senso.
Prima o ultima dimora
Hill House si dice che sia una casa infestata e un professore decide di viverci per un certo periodo in compagnia di due donne, che in passato sono state esposte ad eventi paranormali e al figlio dell’attuale proprietaria dell’edificio. È un edificio strano e respingente già da fuori, con la sua mancanza di simmetria e armonia, ma sopratutto con l’infilata di stanze al suo interno che sono disposte in maniera inconsueta e le cui porte di separazione sembrano, più che una divisione di spazio, una separazione definitiva da ciò che ne rimane al di fuori.
Anche questo aspetto lo rende un horror classico con un contesto che ne accentua la vena gotica. Tutto concorre alla composizione del quadro d’insieme, alla costruzione della dannazione dei singoli che ora sembra certa e ora è inaspettata. Ed è proprio per questo che i risvolti psicologici aggiunti ad una vicenda non nuova già all’epoca, danno a questa storia mille sfaccettature differenti che per certi versi sviano dall’iniziale obiettivo. Ed è qui che la Jackson pone e accenna questioni che poi sembra non svolgere, proprio per impedire la distrazione lettore mantenendo la tensione costantemente con i sospesi che accennano a questioni fuori luogo e incomprensibili ma che successivamente si rivelano chiare anticipazioni di un finale già scritto sin dall’inizio.
Serve il brivido per fare un horror?

Leggendo questo libro, a me personalmente, sembra proprio di no. È vero anche che, io, sono quella che ha letto Rosemary’s Baby e ha scoperto solo successivamente che fosse un horror (giusto perché un’amica su Instagram mi ha chiesto se non avessi avuto paura!). In tutta sostanza la tensione in questa storia, come in parte in quella di Lizzie, è più associabile a quella di un thriller scritto come si deve che al ribrezzo da horror contemporaneo cui contrappone un stile più elaborato. La parte pregevole di Hill House risiede nel fatto che la Jackson sia stata maestra nel concepire una storia intricata, svolgendola in uno spazio tutto sommato ridotto, che si possa leggere velocemente senza mai perdere l’attenzione del lettore come succede altrove, anche con lei.
Ne consegue che non c’è bisogno di scene mirabolanti o sanguinarie per poter ottenere l’effetto desiderato e al contempo i rimandi accennati diventano un utile strumento per supportare la trama.
E allora, probabilmente grazie a queste nuove informazioni potremmo concludere che Shirley è, sì, una scrittrice con idee geniali e di stampo prettamente orrorifico, che la sua massima espressione non è solo nella concezione di racconti come La lotteria, in cui l’idea ha uno spazio limitato e deve essere fulminante e precisa, ma anche nel saper sapientemente usare i mezzi della narrativa nelle storie più lunghe di un racconto, in cui lo sguardo, per poterla pienamente apprezzare, si deve posare sulle sfumature e sul contesto in cui riesce comunque a mantenere la tensione nello svolgersi della vicenda.
In conclusione
Si potrebbe chiudere dicendo che leggere Shirley è un po’ come guardare indietro, in un mondo che rifiutava il mezzo più facile del morto scannato, ma si ostinava comunque ad arrivare all’obiettivo, con risultati, come in questo caso, decisamente apprezzabili. Quindi se all’elenco di generi, volete aggiungere anche l’horror al vostro curriculum da lettori, anche questo è un libro che fa per voi!
Buone letture,
Simona Scravaglieri
L’incubo di Hill House
Shirley Jackson
Adelphi Edizioni, ed. 2004
Traduzione a cura di Monica Pareschi
Collana “Gli Adelphi”
Prezzo 12,00€