Nelle innumerevoli versioni di questa recensione, la più vicina, è quella che comincia con una considerazione: questo libro, finito nel dicembre 2018, chiude un anno che è cominciato con lo stesso argomento in una maniera del tutto inconsueta. Lo scorso anno infatti, una delle prime recensioni riguardava il libro di Matteo Meschiari, peraltro della stessa casa editrice ma di una collana diversa; si parlava della desertificazione culturale e sociale dei paesi artici dove popoli, che avevano sempre vissuto in pace nei luoghi più inospitali della terra, venivano sterminati dall’arrivo di quella che si definiva “civiltà”. Con Morelli, la desertificazione diventa perdita di identità e la civiltà si chiama modernità.
Quella di oggi è la storia di un’opposizione sconclusionata ad un destino già scritto che, in altri frangenti e con altri nomi, avviene ogni giorno nelle nostre città. È il segno che il tempo passa ma anche che, nonostante tutte le possibili giornate intitolate al “ricordo”, l’uomo non impara e continua a dimenticare e a cancellare.
Siamo a Roma e a Trastevere. Ci è stato detto che questa storia può apparire un po’ strana perché è frutto di un lungo sogno; quindi, quando si apre davanti la scena, ci sono due tizi che si incontrano e che hanno la sensazione di conoscersi già. Uno chiama l’altro Cesare e l’altro gli risponde chiamandolo Augusto. Questi nomi non sembrano riconoscerli ma solo accettarli per educazione. Vivono in un quartiere affollato, dove il mondo affaccendato corre qui e lì, ma loro invece trovano il tempo di salutarsi, farsi i complimenti, parlando della loro vita. È così che, parlando, arrivano a casa di Augusto e che , quest’ultimo, dice a Cesare che vuole scrivere un libro. Mi piacerebbe dirvi che è da qui che inizia la storia ma, in effetti, la storia inizia quando finisci il libro.
È un controsenso dire che inizi a conclusione raggiunta ma non è l’unica stranezza di questo libro. Teoricamente la definizione più corretta sarebbe “Romanzo” ma in effetti, a ben guardare, è anche una “Raccolta di Racconti” e anche una “Raccolta di biografie surreali” tipo quella di Schowb (Vite immaginarie, Adelphi) dove il punto non è se sia esistito o no il personaggio ma se la ricostruzione della biografia immaginaria abbia reso l’idea del “senso di una vita vissuta“.

Così Augusto, Ottavia, i sindacalisti, l’inquilino dell’ultimo piano di questo sconclusionato palazzo e anche lo stesso Cesare, in molti punti spettatore come noi, sono esempi di vita, che ci raccontano di un mondo, non molto lontano come appare, e ci riportano in epoche in cui la dimensione umana era diversa. Per far capire che cosa intendo prendo a prestito un concetto espresso da Leavitt di una raccolta di saggi recensita qualche tempo fa: la differenza che passa fra la generazione degli anni sessanta, quella che dovrebbe appartenere a questi personaggi, e quella successiva risiede nei riferimenti con cui sono cresciute. Le generazioni, prima del grande strappo degli anni ’70, crescevano all’ombra di valori millenari, i libri, le tradizioni, i rapporti interpersonali così stretti come solo in un paese possono esserci dove il tizio, che abita a 10 minuti da casa e venti strade più in là, sa cosa abbiamo mangiato anche ieri sera. Molti di noi, oggi, la reputano invadenza e la chiamano “violazione della privacy”, ieri, si chiamava “condivisione” e “interesse”, amorevole o no poco importava. Le generazioni successive come racconta il film del ’61 da cui pare aver preso spunto Morelli, “Fantasmi a Roma” (in questo periodo in programmazione su RaiPlay), sono quelle che hanno perso quel bagaglio culturale e di memoria storica, costrette in casermoni di cemento, chiuse dietro porte anonime e finestre tutte uguali.
In questa perdita ci siamo adattati imparando a dare un nome diverso alle cose, alle emozioni e alle situazioni cancellando completamente le caratteristiche di un gruppo sociale che fa parte della nostra identità, ritrovandoci poi a ricrearle virtualmente e peraltro a gridare alla novità.
Morelli invece ci tiene a riportarci in un’altra dimensione, a farci guardare come fantasmi al mondo che non c’è più e così, prima ci isola dalla modernità, portandoci in un vecchio palazzo, poi uccide un pc con una formica – la rivincita della natura sulla tecnologia – e, spegnendo le luci di un mondo che ci distrarrebbe troppo ma che continua a cercare di entrare attraverso telefonate e citofonate, ci riporta in una dimensione sospesa, scoscesa e in bilico.
È proprio in questo punto che, come Cesare, hai davanti un bivio come lettore: puoi scegliere di andare via, chiudere il libro perché pensi che non faccia per te e abbandonare il campo oppure, sempre come Cesare, puoi vedere come andrà a finire, se questo libro finalmente si comporrà di racconti oppure ascoltare le voci che ricordano un passato che sembra un film in bianco e nero e tentare la sorte per scoprire se, davvero, un libro salverà questo mondo.
Decidere di andare avanti ci porta all’accettazione, come avviene per Cesare, che personaggi, che sono già essi stessi una storia, non affrontino un qualunque racconto o resoconto in maniera convenzionale. Tra parentesi di “convenzionale” qui c’è solo la parola, il suo esercizio ovvero il suo inserimento all’interno del testo è a metà fra la ricerca sterniana di un nuovo modello di comunicazione e la poesia di un dialetto fin troppo stereotipato.
Come avviene per le storie e le persone-storie, qui il mondo della parola è un luogo fatto di cesellatura dell’idea, dove la ripetizione di un concetto, interrotto e ripreso a più mandate ricorda quel lavorio di non mi ricordo quale poeta che raccontava la difficoltà, una volta trascritto il brogliaccio della poesia, di trovare i termini giusti per rappresentare quell’unico significato. È così che appare, che il lettore un po’ subisce, nell’attesa di dare un senso a tutto, anche se il fatto che sia condito dell’antica filosofia romana garantisce sempre, per tutto il percorso, un filo di umorismo persistente e divagante che rende l’insieme più leggero.
Quindi, tornando al primo assunto: il romanzo è la storia di quel che esce fra l’incontro di Cesare e Augusto, la raccolta di racconti, è quella che compone il libro che ne dovrebbe uscire e la raccolta biografica surreale è composta dai personaggi di questa storia. L’insieme non è che “sembri” ma lo è davvero un “po’ caotico”, ed è per questo che scrivere questa recensione è un po’ un incubo per me, ma, stupite, è pertinente, puntuale e anche organizzato. Ma te ne accorgi proprio a libro finito, come avviene con il film, che la fine o il senso sta da un’altra parte e che il resto del testo, come nel film, è una spiegazione dell’assunto principale. “Resilienza” è la parola che lo riassume in toto: la differenza fra la desertificazione di Meschiari e la possibile perdita dell’identità a Roma, con la deportazione di interi quartieri, è data dalla filosofia romana che nel linguaggio attuale si riassume in resilienza, ovvero la facoltà di un individuo di assorbire gli urti o gli eventi riorganizzandosi. I romani lo fanno da una vita e Morelli ci spiega benissimo il come e il perché: io l’ho capito solo di recente a forza di troncare recensioni che avevano una riflessione -questa- sospesa e senza senso, all’interno di un testo che suggeriva un film cui, per il mio punto di vista, aveva in comune ben poco. Il suggerimento, infatti, non risiede nel pretesto di salvare un palazzo, cosa che hanno in comune le due storie, ma nell’eredità reale che il passato ci ha lasciato, che supera il limite dei fantasmi che, cercando di salvare la loro casa a Via della Pace da un mondo che mangia ogni quartiere di Roma, trovano la soluzione, temporanea per noi oggi, per evitare lo smantellamento dell’edificio.
La differenza fra noi e un americano è una storia ingombrante che si presenta a sproposito qualsiasi cosa facciamo: è presente negli atteggiamenti, nel linguaggio, ma anche nelle sue evoluzioni successive, fa parte del nostro DNA. Trasferire un intero quartiere, come il borgo che ha fatto spazio a via della Conciliazione, o le diramazioni verso l’Eur ha sempre sortito effetti devastanti nella misura in cui chi veniva “deportato” non riusciva ad essere resiliente: oggi questi quartieri, come ad esempio la Magliana, sono essi stessi rappresentanti di una identità diversa e composita e multiculturale dovuta alle differenti influenze, dei quartieri di provenienza degli abitanti, ma che continuano a poggiare su vecchi e millenari valori. C’è chi lo riconosce, c’è chi si affanna a farsi vedere in altro modo e anche chi solo guarda e chi non lo sa e continua a dare nuovi nomi a vecchi atteggiamenti, personaggi e situazioni. La storia continua a ripetersi, perchè la storia in cui siamo immersi, probabilmente, non ha molta fantasia o forse perché noi, nel nostro essere parte integrante di un unico grande condominio ballardiano, non pratichiamo l’esercizio della memoria troppo attratti dalle luci di una sfavillante promessa futura che non fa altro che imbellettare un qualcosa che avevamo già e che ci aveva tolto in precedenza.
Il monito al non smettere di ricordare arriva forte e chiaro, quello di resilienza è invece un po’ complesso da percepire ma fa parte proprio del modo di uno scrittore che ho scoperto, molto dopo, ha un rapporto con la letteratura e la cultura decisamente sfaccettato. Morelli infatti non è solo uno scrittore ma anche un poeta, un critico letterario, cinematografico e se non erro forse anche sceneggiatore. Ha scritto una marea di cose entrando in contatto con discipline artistiche, a volte, molto differenti fra loro ma dalle quali ha tratto innumerevoli spunti per le sue storie che si svolgono, stando alle sinossi, perché questo è il primo suo libro che leggo, quasi sempre in contesti sospesi come si svolgessero su un palco di un teatro. Il fatto che mi sia molto piaciuto questo libro è testimoniato dalle innumerevoli recensioni che voi non leggerete – ringraziatemi che ci sono dentro un sacco di appunti e correzioni!- e dal fatto che è più di un mese che cerco di pubblicarla. Però un consiglio dato dall’esperienza di lettura, due per la verità, ve lo lascio: questo Morelli va preso come la salita del corso di Rocca di Papa. È divertente, sornione e spassoso, su questo non c’è dubbio alcuno, ma il persistente stacco fra una storia e l’altra e il continuo il divagare, spiazzano parecchio: questo libro va preso lentamente, proprio come una salita ripida, va gustato come un cappuccino a Trastevere e allora, alla fine, vedrete che c’è in cima. È una salita che vale la pena fare, anche se, come sul corso di Rocca di Papa, il contesto non sempre sembra totalmente incoraggiante e a volte vi sembra di perdervi in viuzze che deviano dall’obbiettivo finale: tutto concorre all’insieme. Altrimenti vi troverete come me, senza fiato la prima volta, a metterlo da parte a pagina settanta per poi ricominciarlo per una questione di principio. Ma vi assicuro che ne varrà sicuramente la pena!
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Né in cielo e né in terra
Paolo Morelli
Exòrma Edizioni, ed. 2016
Collana “Quisiscrivemale”
Prezzo 14,50€