Mai rileggere una recensione dopo aver parlato con gli amici, e persino in un gruppo di lettura, del libro in questione perché, quello che hai scritto all’immaginario lettore, improvvisamente non va più bene. Quelle perplessità che avevi riguardo la storia o i personaggi, magari sono rimaste oppure non ci sono più ma, ora, parli con Maria, Irene, Marina, Francesca o anche con Martino e quindi il tuo modo di spiegare le cose cambia. Ma io questa recensione non l’avevo finita di scrivere, mancavano tutti i “contro”, e quindi, eccomi qui, a riscrivere praticamente tutto quello che avevo inizialmente steso partendo da altri presupposti!
Nutro ancora delle riserve, ma il confronto mi ha fatto focalizzare meglio la questione: Corruzione è un lavoro che, in parte, mi lascia ancora perplessa per una serie di questioni, è un libro che non ho bocciato ma che non regalerei ad occhi chiusi a chiunque. La costruzione infatti è il frutto di una visione diversa, che parte un approccio cinematografico che viene riportato su carta e che si contrappone al consueto modo di affrontare queste storie: di solito, infatti, prima si scrive il testo e poi lo si modifica per metterlo in scena. In parte ci ero arrivata da sola, visto che nella precedente recensione avevo scritto che ricorda i film Marvel ma, quell’affermazione, era più dovuta alla costruzione e inserimento del protagonista, Malone, all’interno del contesto e non all’intero impianto su cui si poggia. Dall’altra il gusto di alcune descrizioni, dialoghi e interazioni è propriamente vintage tant’è che, finché Irene non mi ha fatto notare che ad un certo punto si passava da Ground Zero, io ero convinta di leggere un libro ambientato negli anni settanta. Quindi, per me, Malone ha la voce e il modo di porsi verso la città e i suoi abitanti del tenente Kojak, protagonista di una serie TV, che non era neanche fra le mie preferite ma che ti rifilavano lo stesso ovunque perché molto apprezzata, quando ero ragazzina.

Foto di Jo Wiggijo da Pixabay
Quindi oggi siamo a New York e siamo anche nel nostro presente. La “città che non dorme mai” viene sempre rappresentata in soli due modi: o il mondo del business, tutto luce e grandi strade, in cui macchine e per lo più taxi si affollano mentre la gente corre a destra e manca come stesse perdendo la riunione della vita. L’altro modo è riservato ai polizieschi che di solito si aprono con ampie carrellate a tutto schermo con la camera puntata in maniera che non si vedano i conducenti ma solo le strade che stanno attraversando, come fossimo noi a guidare: e così scorrono vie più ridotte in larghezza, delimitate lateralmente da edifici che lasciano l’acciaio e le ampie vetrate a Manhattan, preferendogli costruzioni in mattoni o in legno caratterizzate da finestre a scorrimento verticale tutte uguali fra loro. La carrellata solitamente dura tutto il tempo della sigla e così scorgi i negozietti di quartiere, le persone che acquistano o che parlano, il cinese che urla all’indirizzo di un ragazzino che scappa e magari altri ragazzi nullafacenti seduti sulle scalinate all’ingresso di un palazzo e altri ancora che invece, solitari e con lo sguardo guardingo, sono appostati agli angoli degli incroci. È lunga come descrizione eh? Fatene tesoro, che poi dopo vi spiego il perché…
Siamo nei quartieri adiacenti ad Harlem, ci sono zone più povere e altre che invece sono oggetto di riqualificazione ma essendo un territorio abbastanza vasto, non come chilometri ma come densità abitativa, l’NPD (New York Policy Department) ha deciso di creare una Task Force ad hoc per questo grande conglomerato che, in barba a tutta la militaresca organizzazione del dipartimento, ha creato gruppi di controllo, capitanati da agenti speciali che si siano distinti in passato lavorando su indagini di grande rilievo. Ogni gruppo ha ampio margine d’azione non dovendo dispacciare i casi ai vari uffici specializzati: quindi dall’omicidio al caso di traffico di droga, dalla mafia alle organizzazioni di quartiere tipo le gang, tutto si risolve in casa. Malone non è altro che uno di questi agenti speciali a capo di un gruppo che, con lui, conta quattro agenti e ci tiene a descrivere ogni sasso della strada del suo territorio. Ci tiene anche a sottolineare che l’ordine costituito e rispettato è una commistione tra il rispetto guadagnato dalla popolazione e un compromesso. Corruzione è la storia di come qualsiasi compromesso possa diventare, appunto, corruzione.

Mentre scrivo io sto già sorridendo perché già qui, dopo aver riscritto due paragrafi avrei altre dieci idee in più da aggiungere a quanto sto per scrivere, ma faremo una forte selezione per concentrarci su gli aspetti più rilevanti.
Il compromesso è la parola chiave di questa storia che narra la caduta di un re, Malone, dal suo trono. Il compromesso, sembra dirci Winslow, è una questione di equilibrio, sia nel tenerlo in piedi ma soprattutto nello scegliere di percorrere quella strada. Questo perché chi arriva al compromesso deve tenere conto che, questo, deve facilitare entrambe le parti che, arrivate all’accordo, devono essere tutte concordi e votate al rispetto dello stesso. La società odierna, invece, ha un approccio completamente diverso: nel correre dietro alla vita siamo obbligati continuamente a cambiare traiettoria in ragione di questioni di mero opportunismo. Questa è una storia thriller, e quindi l’opportunismo è più semplice ambientarlo in un sistema criminale complesso, descritto in tutta la sua ramificazione, che si contrappone ad un sistema ufficiale di controllo che invece, a sorpresa, si presenta al lettore attraverso le proprie ombre; Winslow conosce e ci tiene a sottolineare che, gran parte delle magagne di chi controlla, sono il frutto di una visione più ampia, volta a racchiudere un insieme in una tabella organizzata di dati. Più la visione è ampia, più i dati sono organizzati, catalogati e incasellati e più è facile che possano essere modificati ad arte per piegare quella visione all’esigenza del momento. Serve più attenzione sulla lotta alla droga? Basta fare più arresti; non importa che portino ad una condanna, basta solo che il numero degli arresti per quel motivo siano più numerosi rispetto a quelli del giorno prima. In sostanza, il limite di un sistema che fonda la sua analisi sulle aggregazioni, mette in crisi qualsiasi sistema di controllo che vi si debba attenere per poter pianificare la sua azione.

“Il crimine dei colletti bianchi” è un argomento spinoso di cui in Italia si parla molto poco, nonostante svariati scandali, ma che in America è stato oggetto di studio e ricerca già dalla fine del ‘900 e trovarlo qui mi ha un po’ lasciato stupita. A Winslow, bisogna riconoscere di averlo trattato non solo approfonditamente dal lato burocratico di cui accennavamo prima ma anche dal lato personale di chi lo perpetra. L’anti-eroe in questione solitamente è un uomo che si sente solo contro il mondo (versione Marvel dell’eroe odierno) e che tende a modificare il significato delle parole, come legge, giustizia e via dicendo, al suo modo deviato di guardare alla realtà (realtà del crimine dei colletti bianchi e delle organizzazioni di stampo mafioso). Serve un linguaggio adeguato per far sì che la tua realtà, quella che costruisci mano a mano, ti rappresenti e serve che questo sia un insieme di termini riconoscibili e accettabili anche dagli altri: anche il mafioso fa giustizia ma, la sua giustizia, è un atto illecito che tende a punire chi ha tentato di ridurre il suo potere o i suoi traffici. E’ straordinariamente interessante questa sfumatura filosofica e linguistica, ed è comune a tutte le organizzazioni che si strutturino per agire al di sopra e a volte al di sotto della legge. L’operazione che pertanto Winslow fa, non è solo la denuncia di come sia facile scivolare in un sistema così fallibile come quello che si gestisce con le aggregazioni di numeri, ma soprattutto mette a confronto due entità opposte ma identiche. Se uno non sapesse che mestiere fa Malone facilmente lo scambierebbe come un mafioso di turno.

Ed è una ricostruzione particolareggiata perché non è il caso, che da vita alla storia, ad essere il centro del suo interesse ma proprio e solo il protagonista, tant’è che ad un certo punto il mondo che lo circonda svanisce e diventa quasi un mezzo che interviene quando l’azione di Malone si incastra in una via senza uscita o ha bisogno di una spinta per non stagnare ed è in questo che Corruzione ricorda fortemente le serie Marvel: l’agente supereroe, complessato per il suo dover salvare il mondo, anche se non l’ha chiesto, soverchiato da una famiglia destrutturata, e per questo impossibilitato a parlare perché non nessuno capirebbe il suo cruccio, che si trova a decidere per tutti, a volte mettendo a ferro e fuoco la città per il bene della stessa.
In questo, la scelta è prettamente di gusto americano: la giustizia a tutti i costi è un qualcosa di auspicato, di cercato e anche di creato. Una società che fonda le sue certezze su immagini e che, oggi, si ritrova formata da quei ragazzi che negli anni ’60 e ’70 del ‘900 sono cresciuti a botte di fumetti e che hanno vissuto in maniera, forse inconsapevole, prima la crisi del comparto e poi la rinascita con il restyling del concetto dell’eroe. Quell’eroe che, nel periodo della guerra, era bello, alto, bravo, intelligente e pure forte e che combatteva i cattivi molto spesso da solo, a colpi di botte e di astuzie, che, alla fine degli anni ’80, non corrispondeva più ad un ideale nel quale identificarsi. Ricordava il concetto ariano dei regimi sconfitti ed era irraggiungibile, era difficile affezionarsi: gli eroi successivi, o l’evoluzione di quelli che già c’erano, pertanto si modificano diventando più umani, complessati perché ammirati per una cosa che li rende diversi dagli altri e che loro vivono come un handicap, costretti a fare giustizia ma molto spesso avversi al sistema di giustizia vigente, perché operano al di fuori dei limiti di legge. Così l’unico, almeno fra quelli che ho visto io, che rimane fuori proprio per sua natura e per come era concepito alla sua nascita e che ha subito meno modifiche, ovvero Capitan America, appare quasi sciocco in confronto agli eroi più rimaneggiati.

Malone nasce nella nuova concezione, inserito in un contesto che viene sempre definito e presentato come in bilico su un baratro, prossimo alla caduta del sistema. Anche lui ha il suo personale complesso, ed è un fratello morto da eroe di cui, come nella miglior tradizione marvelliana non fornisce una approfondita descrizione – sta lì, come una continua remora che affiora quando è più debole-, basta che sia morto, da eroe e pure da pompiere, per rendere il nostro agente speciale meno elegibile all’altare massimo del personaggio a cui ispirarsi. E’ solo e vive il sistema che ha creato per il controllo del territorio come un handicap: è lui che dirige e che decide, è lui che distribuisce ai poveri per farsi apprezzare, che parla con determinati informatori e che vendica le ingiustizie, i suoi agenti sono ora un’arma che usa per portare a termine le sue retate e ora come dei figli a cui pensare e da difendere dal giogo del sistema che vuole punirli ingiustamente. L’eroe marvelliano per funzionare ha bisogno di vivere il suo mondo come una continua distopia ma monca: di solito la rappresentazione distopica funziona come metafora del presente e suggerisce una via, può essere opinabile ma rimane sempre un suggerimento per ricostruire. L’eroe marvelliano invece non punta a cercare una via o una ricostruzione, per essere appetibile al suo pubblico non deve cercarla, ma rimanere lì, in quel simbolico momento in cui tutto è caduto e lui riemerge dalle macerie cercando di rendersi conto di chi è ancora vivo e cosa sia successo. Ed è incredibilmente interessante osservare come Wislow riesca a costruire tutti gli elementi, volta per volta, per far sì che questa distopia diventi più stringente per il suo eroe che eroe non è più. La sua caduta è descritta pezzo per pezzo e alla fine una porta socchiusa rimane, sia mai ci si voglia fare una serie di libri, ma è verticale e inesorabile. Tutto ciò che prima era chiaro si sveste degli abbellimenti che la deviazione del compromesso aveva richiesto e appare come un muro di cemento, grezzo e grigio. Ma Winslow non vuole che il suo personaggio rimanga l’unico a svelarsi.
Abbiamo detto che è una storia di compromessi e del reale sistema che crea il compromesso inserito in una rete che si fonda su una struttura che non è in grado di vedere il singolo se non inserito in un gruppo. Siamo in America e il gusto americano richiede una teoria di un complotto: il singolo è quello che l’America rende grande ma a cadere non è mai solo il singolo, ma anche il sistema che si trova a doversi reinventare, anche se poi a pagare è sempre lo stesso singolo che ha rotto il meccanismo. Così accenna, porta nuove voci, compaiono personaggi citati qui e lì ma non troppo, i cui scopi e la cui presenza rimane sfumata, un po’ come dire se il singolo fa è perché lo può fare, anche in ragione del sistema che approva implicitamente quel che viene fatto ma che mai si dichiarerà d’accordo pubblicamente. Messa così, la questione, non sembra avere fine ma oggettivamente sappiamo che anche nella realtà avviene così; attenzione non è un “gomplotto” e la terra non è piatta è una questione reale. In un sistema organizzato, chi ha una qualsiasi posizione decisionale tende naturalmente a guardare i propri interessi: l’eticità dello stesso, sta nell’equilibrio, nel perseguimento degli obiettivi, fra interessi personali e quelli comuni. E’ umano ma nello stesso tempo impossibile da annullare.

Ricordate la carrellata di cui sopra? Quella per le strade con tutta quella descrizione lunga lunga? Ecco, qui emergono le mie perplessità. In una costruzione più da serie televisiva anni ’70, che odierna dove le sigle non ci sono quasi più o si saltano con il tastino a bordo video – grazie Netflix!-, questo scritto ha un preambolo di quasi il 40% del libro. Tu, questa storia, la devi proprio voler leggere a meno che, tu, non sia amante delle lunghe descrizioni e allora questo è il libro che fa per te. Questo immenso preambolo è quello che mi stava facendo abbandonare la lettura: la carrellata a video comporta che tu vedi le persone a bordo strada, gli edifici, anche il cinese – perché c’è sempre un cinese – ma a video non si fermano a spiegarti, chi sia il cinese, come è arrivato lì, se paga le tasse, chi sono i figli, la moglie o i fratelli e via dicendo. Anche perché pure quello al volante scenderebbe dicendo scocciato “Senti, quando hai finito, fammi uno squillo che torno!”.
Quindi la gestione di questo preambolo poteva sicuramente essere fatta in maniera diversa, magari accennando a dove si stava andando a parare in maniera più completa, che ne so, magari parlando della vita di Malone? Avremmo perso 20 o 50 pagine? Giuro, me ne sarei fatta tranquillamente una ragione! Invece, non solo è lunghissima e descrive ogni edificio, con la sua storia, ma è anche tendenzialmente lenta così tanto da risultare quasi noiosa. E a poco vale la giustificazione di Maria e Martino che questo libro lo devi affrontare quando sei libero, così te lo leggi e ti cali in velocità in questo mondo, perché, se nasce come un libro di intrattenimento, non deve puntare a far morire di inedia il lettore prima che si arrivi al punto. Anche perché Winslow le storie le sa scrivere, tanto che il successivo 60% del libro, una come me che lavorava nel frattempo – e quindi non era “libera”!- ci ha messo due pomeriggi a finirlo! Ma a Winslow piace da morire fare il cicerone e sta lì che scrive e scrive.

Poi c’è questo modo di descrivere come Malone si approcci con il mondo che lo circonda, il modo in cui si muovono i suoi colleghi, le cose dette e pensate. Irene le ha definite stereotipi, per me è qualcosa che io ho già sentito e vissuto in serie TV, quelle un po’ noir, dove è tutto fumo di sigaro e Whisky tirato fuori dal cassetto di una scrivania in un affollato stanzone di una centrale di polizia con, sullo sfondo, una prostituta seduta mentre un poliziotto con le bretelle e una camicia di un’orribile giallino sta chino a battere i tasti di una vecchia macchina da scrivere mentre redige il verbale dell’arresto. So che sembra assurdo, ma se uno guardasse quelle serie TV ambientate a New York, old style, di cui io ricordo al momento solo Kojak e poi leggesse questo testo, probabilmente capirebbe quel che ci vedo io. E’ fatto di sottigliezze, ma ci sta. Per cui, il poliziotto eroe e antieroe di cui sopra è uno che gira per le strade che incontra la gente e i furfanti nei bar del quartiere, che si rapporta con il mondo e, ironia della sorte, l’inizio della fine di Malone, parte da un compromesso che ha delle basi che ricordano molto quelle delle vecchie serie gialle, tipo il prestare particolare attenzione a questa o quell’indagine non per giustizia ma perché l’efferatezza del reato che ha colpito l’immaginario non collettivo ma di quartiere. E questa somiglianza non finisce qui, si ritrova nella gestione dei complicati e labili rapporti con la criminalità e i capi, in quel linguaggio sempre duro che ti fa pensare che alla mattina Malone pasteggi a caffè e cornetti chiodati. Sempre tutti duri, massicci e incazzati e sempre tendenti alla giustizia nonostante la criminalità e i loro capi, ancorati al vecchio modello di famiglia americana con le donne a casa che mettono il naso anche in questioni che non le riguardano in deroga al loro essere prima di tutto madri. Persino un’amante te la immagini vestita tutta pitonata con i zatteroni che come dovrebbe essere oggi. Insomma quell’aura veramente vintage, per me, permea un po’ tutto e non mi convince del tutto. Eppure l’altro libro, Il potere del cane (gioisci mondo che per la prima volta mi sono ricordata il titolo senza doverlo andare a cercare!) nonostante io ancora non lo abbia finito mi ha convinto decisamente di più.
Compreso che Winslow, sotto le 500 pagine, nemmeno si impegna a trovare una storia da scrivere, il libro della trilogia ha anch’esso un lungo preambolo ma decisamente più convincente nel suo andare avanti e indietro nel tempo e Art Keller sembra più rotondo e verosimile rispetto a Malone che invece è un vero e proprio personaggio televisivo con il suo modo di agire “faccio-tutto-io”.
Quindi, qualora vi capitasse fra le mani, io questo libro lo leggerei proprio per questo coraggioso e competente toccare e spiegare un mondo complesso e articolato come “il crimine dei colletti bianchi”, o per vedere come oggi sia diventato un genere il riportare una sezione visuale su carta, un po’ come mettere una sigla ad un testo, che denota il grande amore dello scrittore per questa città e lo affronterei anche per la questione dell’eroe nato sui nuovi presupposti fondati sulle macerie delle vecchie intenzioni sulle quali i supereroi, per più di un cinquantennio, hanno fatto la fortuna di artisti visionari e impegnati. Quello di Winslow è un percorre una strada poco battuta, aprire un pertugio, quasi a suggerire ai suoi colleghi che questa è un nuovo modo di raccontare una storia. Sono tutte ragioni valide, l’importante è che si sia consapevoli di che strada si sta realmente imboccando.
Certo, se avete gusti simili a me e siete riluttanti alla descrizione continuata per il 40% del libro sarà un viaggio un po’ lento all’inizio ma poi prende il via con un ottimo ritmo che regala anche qualche soddisfazione. Spero di non avervi fatto morire di inedia anche io, ma chi mi conosce sa che se un libro suscita il mio interesse non posso esimermi di raccontarlo con dovizia di particolari.
P.S.: se dopo tutto questo sproloquio, tu volessi sapere che ne pensano gli altri, su Facebook c’è il video della diretta del gruppo di lettura in cui si è discusso
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Corruzione
Don Winslow
Einaudi, ed. 2017
Traduzione a cura di A. Colitto
Collana “Einaudi Stile Libero Big”
Prezzo 21,00€