Logo della serie televisiva Criminal
Logo della serie televisiva Criminal, una delle innovative serie paneuropee di ultima generazione
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Criminal – La Serie Tv che mette in scena le parole

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Tranquilli, non sarà l’ennesimo post del “Mi piace tanto tanto”, che sapete che non fa per me; a volte, però, tra le nuove proposte ci sono serie che danno davvero da parlare non poco e, visto che lo spazio qui c’è, non vedo perché non farlo. Io l’ho già detto più volte di non essere una grande telespettatrice e che a casa mia la tv si accende raramente, ma ogni tanto leggendo qui e lì, ascoltando video o podcast mi faccio trasportare e faccio delle belle scoperte. Tra queste spicca di certo Broadchurch con David Tennant come protagonista mentre Mindhunter è una scoperta fatta lo scorso anno e tutta un’altra serie di “serie TV” che qui non vi starò a citare perché non rientrano nel genere che mi interessa qui raccontare.
Broadchurch e Mindhunter non sono in generale particolarmente spettacolari, anzi sono delle storie molto lente, la differenza è che la prima aveva puntato su una, credo, novità per il periodo in cui è uscita (2013), ovvero quella di avere un unico grande caso le cui indagini avrebbero occupato un’intera stagione e più in particolare un crimine odioso come l’omicidio di un bambino di 11 anni mentre, il secondo, ha dalla sua una storia che parla di omicidi seriali che non si guardano più dal punto di vista della vittima ma da quella dell’aggressore. Mindhunter, infatti narra della nascita della ricerca nata, nella sezione di studi comportamentali, che ha dato vita ad uno dei primi protocolli per il profiling degli assassini negli anni ’80. Marianna Cuccuru, in una recente puntata di Radio CICAP, Nella mente del serial killer, ha spiegato che la definizione di “Serial Killer” attualmente in uso è proprio quella che viene dall’FBI e che è il frutto del lavoro di quegli anni, in cui dal gruppo degli “omicidi di massa” (Mass murder) venne estrapolata la definizione per questi casi nei quali, fra un omicidio e l’altro, era presente un periodo di raffreddamento emotivo. Le ricerche erano iniziate già negli anni ’50, e allora venivano definiti Chain Killer, ma la vera svolta è stata nell’ultimo ventennio del secolo scorso.

Che simpatici interessi ho negli ultimi anni eh? Ma andiamo oltre…
Potevo quindi io, visto il promo – in particolare la sezione UK – dove compare proprio David Tennant e dove si capisce che la serie si svolge con fitti interrogatori, esimermi dal vedere Criminal? No, non potevo esimermi. I rapporti con le altre due serie TV è più stretto di quanto sembri visto che entrambi basano le loro ricerche di colpevolezza o innocenza non solo sull’indagato ma anche sul contesto che lui ha percepito o in cui è vissuto.
In più “Criminal” fa pensare che sia la risposta alle proposte della Comunità europea che guarda all’arrivo di piattaforme di streming straniere, in particolare americane, con preoccupazione sugli impatti sulle produzioni europee e che, più di una volta, ha proposto una tassazione i cui ricavi dovrebbero essere messi a disposizione delle produzioni nazionali di ogni paese.
In questo “Criminal” tacita queste preoccupazioni con una produzione paneuropea, che vede coinvolti quattro paesi europei distinti non solo come cast o storie ma anche in una produzione organica di 4 serie TV distinte per paese ma uguali come ambientazione e struttura di base. Quindi, quattro Serie TV (UK, Spagna, Francia e Germania), tre episodi per la prima stagione per tutte e quattro le produzioni per un totale di dodici episodi, uno diverso dall’altro, stesso titolo, location e struttura di base del cast che però conta all’attivo fra indagatori e indagati anche nomi di spicco che, a parte Tennant, io non conosco bene e quindi soprassediamo, eh?
La parte interessante non sta, infatti, nei personaggi che mano a mano sfilano davanti ai nostri occhi ma proprio nella concezione e svolgimento di una serie che, se da un lato dimostra di aver raccolto anche lui quella che è l’eredità del gusto voyeristico del guardare a casi particolarmente cruenti (come dice nella critica a MindHunter, Coming Soon) dall’altro decide di non soffermarsi su casi spettacolari particolari ma di selezionare casi emblematici, a quanto pare costruiti ad hoc, prendendo probabilmente spunto dalla realtà. Grandi pregi, ma anche grandi difetti che sono evidenti già dalla prima stagione tanto che, qualcuno, ha ipotizzato che le quattro serie Tv sarebbe meglio non vederle una di seguito all’altra altrimenti è difficile apprezzarne le differenze (che non ci sono, aggiungerei io, ma ne parliamo più avanti).

Il promo di “Criminal” di Netflix, uscito a Settembre 2019

Dodici storie diverse dicevamo, che sono verosimili nei temi affrontati (famiglia, amicizia, solitudine, bisogno di attenzione, di amore o soldi etc.) perché sono molto spesso le motivazioni che muovono atti che portano a commettere efferati delitti. Le persone che qui sfilano non sono i serial killer navigati di MindHunter, alcuni rientrano nella categoria, come in un caso della versione tedesca, ma non è l’obiettivo della serie. Quello che viene fuori in maniera predominante dalle serie sin qui citate è una nuova visione del criminale. In generale ci si stupisce che a commettere efferati delitti sia il vicino di casa, l’amica di sempre o il genitore che sembrava amorevole, in particolare si sente dire che i soggetti erano delle persone normali, con una vita normale e magari anche gentili. Quel che viene fuori è che tutti coloro che passano dalla sala interrogatori di Criminal sono anch’essi persone in fondo normali: professionisti, donne appassionate di cani, camionisti con famiglie da mantenere, fratelli, sorelle e via dicendo. Sono persone che a volte hanno qualche tipo di disturbo ma che non è così evidente da destare preoccupazione. E allora ad uno viene da da domandare: cos’è che mi distingue da loro? La cultura? Il fatto che io abbia una vita normale? O che non farei mai del male a nessuno? La risposta a quanto pare è un’altra ovvero che il criminale in questione è uno che non si è fermato: è come se nel rettilineo della nostra vita noi avessimo a lato un’altra strada, non è detto che sia più semplice o complicata ma, superare la linea di confine, comporterebbe commettere un atto illecito. Ecco, i criminali che qui sfilano hanno guardato quella linea per un po’ nel loro cammino e, al dunque, sollecitati dal momento o dal contesto, cosa che non li giustifica affatto ma ci aiuta a capire, hanno attraversato quel sottile confine non tornandone più indietro. È davvero interessante osservare l’arco completo delle storie personali che hanno vissuto prima e dopo e il loro rapporto con il delitto: c’è chi lo rifiuta, chi vive una vita parallela costruendosi una nuova verità, c’è chi non ne parla “così non è successo” e chi invece ha questo impellente bisogno di raccontarsi prima di raccontare. Questo, se si vedesse le quattro stagioni a distanza di settimane l’una dall’altra, sarebbe difficile da estrapolare. Un altro aspetto di pregio è nella struttura di base su cui ogni paese ha costruito i suoi casi.

Criminal UK, il primo episodio

Una struttura articolata che non si poggia solo sui personaggi del cast ma anche di location. Due sale collegate da un corridoio con altre porte che rimarranno sempre chiuse, che sfocia su un pianerottolo che ha anche le macchinette del caffè e dei dolciumi, una scala metallica che sale ad un immaginario piano superiore, gli ascensori di fronte e una lunga vetrata che da su una città che non ha riferimenti che possano far stabilire dove realmente si trovi. Colori neutri, asettici, il grigio del cemento, dei vetri e dell’acciaio, il nero, il bianco dei pannelli fonoassorbenti e il legno del tavolo e dei pannelli della parete atti a creare un gioco architettonico di design. Un mondo sospeso e una pratica che ricorda quelle tanto contestate utilizzate con i terroristi, che venivano trascinati lontani dal loro mondo e dai riferimenti a loro più facili da riconoscere. In questa “bolla” le macchinette del caffè hanno la funzione di interrompere i dialoghi troppo tesi, di allungare i tempi di pace emotiva dell’indagato messo sotto pressione, di dare nuovi indizi per l’interrogatorio e di studiare nuove strategie.
La sala, chiamiamola di regia, ospita chi osserva e tramite i commenti di coloro che la popolano è possibile, agli autori, mettere l’accento su un indizio o un atteggiamento in particolare dei tre o quattro occupanti la sala interrogatori. È tutto costruito ad arte per creare una sorta di alienazione degli occupanti dal contesto che li circonda e concentrare l’attenzione solo sull’indagato.
In questo contesto, il caso in discussione perde attenzione, non ci sono immagini del suo svolgimento, poche prove visive e quasi nessuna immagine del luogo del ritrovamento o del cadavere. Il caso quindi non è il punto focale ma solo lo spunto per cominciare a parlare, a chiedere e a sondare il terreno. Ne vengono fuori le vite singole di chi è coinvolto, i più reticenti sono gli innocenti, i più complessi i colpevoli che si sono sdoppiati in due vite, quella nascosta e rifiutata del crimine spesso reiterato, e quella ufficiale innocente e alcune volte stravagante. Colpisce così la donna del primo episodio spagnolo che apre la serie con un monologo fra amore reale e amore percepito, la donna tedesca, quella del “se non ne parli non è successo”, che quando le viene chiesto perché dopo il suicidio del compagno assassino per non essere portato in giudizio, anche lei, per evitare una pena così lunga non abbia percorso la stessa strada risponde “Non lo so. L’educazione forse…”; colpisce anche la donna francese dell’unico episodio di tutti e dodici che abbia un riferimento reale e conosciuto, la strage del Bataclan di Parigi del 2015, con il suo stupore, con la sua forma di solitudine indotta dal senso di colpa e da una complessa architettura di una realtà ricreata ad arte. Una cosa in comune tutti i colpevoli ce l’hanno: hanno bisogno di raccontare, di descrivere precisamente le condizioni e il momento in cui il crimine è nato, quasi come se contestualizzarlo lo rendesse meno efferato, o li rendesse meno colpevoli o almeno meno nemici della società. È una necessità che esce in maniera preponderante, a seguito delle sollecitazioni, delle domande ripetute sempre uguali o con altri sotterfugi. Il tutto avviene nell’aria rarefatta della stanza intervallati da tazze di tè, acqua o caffè che vengono usate per smorzare i dialoghi serrati o dare il tempo ad indagato e spettatori di tirare il fiato. E poi ci sono le vite personali della squadra…

Sì, le dinamiche di squadra investigativa sono uno dei nei di questa serie di serie: è successo anche in Mindhunter, ovvero la necessità di portare il personale dei personaggi che fanno da perno alle storie che li vedono coinvolti. Ma che necessità c’è? Empatia, probabilmente, il pensiero che un personaggio più umano e meno superuomo possa essere più caro al pubblico. I quattro gruppi sono abbastanza simili, tranne per un caso a capo c’è una donna, amati o odiati questi capi lo sono appena diventati a seguito dell’avanzamento di carriera del precedente capo di cui si parla qui e lì. Ogni gruppo ha in media due teste matte, di solito sono un uomo e una donna, un tecnico che si occupa delle ricerche in rete, un personaggio più maturo che tende a riportare con la sua esperienza, le cose ad un piano più realistico e un elemento giovane o esterno, contro cui, spesso la restante parte dei colleghi si allea. Il limite più grande? Che se fai parte di una squadra di profiler, non ha molto senso avere dei macho, maschi o femmine che siano, che facciano i duri e sopratutto in un ambiente asettico, e con una costruzione così chirurgica di scene, dialoghi e location, certe esternazioni hanno l’effetto di uno che corre nudo urlando in una cappella di preghiera. Disturbante insomma. In più abbassano il livello dell’impianto costruito lasciando una porta troppo ingombrante su un esterno che non si vede.

Ancora David Tennant e il primo episodio della serie inglese. Uomo che mi inquieta un sacco con la sua mimica in grado di farlo passare da tenente competente ad un pazzo omicida. (Fonte Hollywood reporter)

E se poi vogliamo continuare a parlare di limiti, hanno ragione coloro che commentano sulla scelta della location unica. Non hanno, secondo me centrato tutto il problema, ma è un forte limite: location e casi che potrebbero svolgersi universalmente ovunque – tranne quello francese del Bataclan – rendono impossibile allo spettatore comprendere quale sia la differenza fra una nazione e l’altra. Mi spiego meglio: casi come rapimenti, uccisioni, maltrattamenti, stupri e via dicendo, avvengono ovunque, ogni giorno. In un contesto asettico, dove il prima e il dopo non hanno viste che possano far pensare di star guardando una parte di un processo complesso, il particolare non permette di percepire le differenze legislative e sopratutto di percezione dell’entità del delitto. È cosa complicata da spiegare ma culture differenti, generano percezioni dell’entità del delitto con sfumature diverse e anche letture dei comportamenti altrettanto diverse. Invece sotto l’egida dell’unico protocollo, persi nelle questioni personali al di fuori della sala e in quelle di lettura del personaggio sottoposto all’interrogatorio, impegnati a trovare il sistema di farlo parlare, questa personalizzazione si perde a favore di episodi che potrebbero essere svolti anche tutti – tranne uno – in Gran Bretagna. Anche il luogo non aiuta, come detto la vista che si nota dal pianerottolo è completamente anonima, come gli atteggiamenti dei poliziotti. Quindi produzione paneuropea sì, ma per i fondi, i cast, le lingue parlate dagli attori, per il resto, che lo si guardi tutto di seguito o a distanza di tempo, l’effetto è identico.

Il fattore che più è evidente e di pregio è lo spazio che si lascia ai dialoghi. Grazie al cavolo, direbbe un romano con un linguaggio ben più colorito, ma non è una cosa scontata, nel profiling contano anche i gesti, il modo di muoversi e finanche quello di sedersi. Invece qui, ciò che non si dice è commentato a latere così che non sfugga e, in un luogo così asettico, le parole hanno un peso specifico che ricorda quella scelta selezionata che deve fare uno scrittore nello scegliere le parole per i suoi dialoghi. Sono serratissimi e a volte estremamente diluiti, si muovono su binari differenti, la vita, gli interessi, il lavoro, le emozioni, le vittime e non sembrano soffermarsi ma ritornano ciclicamente in modo da smantellare quel castello pre-costruito che si è fatto l’indagato. Così anche le virgole, le pause diventano importanti, perché aprono piccoli spazi in cui insinuarsi per scardinare l’impianto e scoprire che c’è dietro.
È lo stesso luogo asettico che amplifica questa caratteristica, mancando distrazioni e oggetti vari anche sul tavolo, l’attenzione non può che concentrarsi che sulle parole, sull’intonazione e sui contenuti rendendo l’effetto di una serie costruita come un libro, da uno scrittore cui piace rendere ogni particolare del suo colpevole e, le descrizioni rare delle immagini che accompagnano a volte le sessioni, diventano lo spunto per avere ambientazioni, non facendo altro che avallare ancora di più questo aspetto.

Rimane una serie davvero interessante da osservare più che guardare. Non vi svelerà il mondo, ma a individuare quei piccoli sotterfugi che fanno parte della magia e del mistero del mondo cinematografico e che in un contesto così minimalista saltano agli occhi molto più rispetto ad altre produzioni similari. E, se la guarderete, mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate, nel bene e anche nel male. Io, nel frattempo, attendo la seconda stagione…

Simona Scravaglieri

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