Mamma è matta, papà è ubriaco, Fredrik Sjöberg – Una divertente occasione perduta

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Quello di oggi è un libro grigio, uno di quelli che ha grandi motivi per essere bocciato e altrettanti per essere promosso e così, galleggia, nei miei pensieri da un po’, ovvero da quando è finito il gruppo di lettura con cui lo abbiamo scelto. Se da un lato ha una scrittura piacevole e scorrevole, il tema trattato non solo non è svolto ma è anche sinceramente difficile da individuare in un mare di informazioni, personaggi e situazioni che a volte non hanno nemmeno a che vedere con la vicenda principale.
Come dicevo la scorsa settimana, di libri insoddisfacenti in questo periodo ne ho incontrati un po’, e questo rientra appieno nella categoria. Non è una biografia, né un’autobiografia, un romanzo e manco un resoconto di un viaggio. È un po’ di tutto, ed è proprio la quantità assegnata a ognuna delle parti di quel “tutto” che ne rovina l’effetto finale riducendolo ad un libro che leggi divertita ma che ti lascerà molto poco.

Hai mai sentito parlare di Anton Dich? Ecco, nemmeno io.
È un pittore nato alla metà inoltrata del 1800 e morto nel 1935 a Bordighera, di origine danese e che in patria ha passato una parte molto piccola della sua vita che invece si è svolta fra Francia, Spagna e Italia. Da giovane si innamora della vedova di un altro grande artista morto prematuramente all’apice della sua carriera. La donna è più grande di Dich di una decina d’anni, e alla fine si sposano.
Fredrik Sjöberg inizia ad interessarsi di lui dopo aver visto un quadro che raffigura due sorelle, un po’ corrucciate. Ma di Dich si sa veramente quasi nulla perché è rimasto poco della sua arte e dei suoi pensieri e quindi in una ricerca, che si sviluppa in anni e per paesi diversi, l’autore cerca di restituircene un quadro più completo.

Il quadro di Dich di cui parla Fredrik Sjöberg

Non c’è molto altro da dire. Si potrebbe affermare che questo è un valido spunto per una forma nuova di indagine che tenti di ricostruire vite di sconosciuti, per riportarli ai lettori creando nuovo interesse e io, a questo, posso rispondere che non è una novità: negli anni ’70, in Italia, c’era una corrente di pensiero fra gli storici che guardava con favore alla ricostruzione della vita comune, quella degli ultimi perché la storia non la realizzano i condottieri ma chi fa in modo che la loro idea si concretizzi. Fra questi c’è una celebre prova d’autore, un libro davvero bellissimo, “Il formaggio e i vermi” di Carlo Ginzburgh che trova la formula giusta e ti rende partecipe della vita del Menocchio attraverso una ricostruzione che si basa sui documenti dell’inquisizione, che alla fine del 1500, lo condanna a morte.
Per Fredrik Sjöberg invece la mancanza di documentazione e soprattutto la scelta del percorso di ricostruzione da seguire per raccontarla, penalizzano il libro che ne esce fuori. Quella che infatti ci si trova di fronte non è una biografia, e Dich sembra la scusa giusta al momento giusto, per trascrivere invece l’evoluzione di un percorso di ricerca nato casualmente il cui problema di fondo è che, in mancanza di documentazione e critica che ne tracci il percorso di maturazione, richiede un approccio alternativo: la ricostruzione attraverso le persone che ha conosciuto e frequentato.

Questo processo mi è chiaro e lo capisco, perché è qualcosa che facciamo tutti, nell’era di internet, nel cercare di approfondire e avere notizie su quello che ci interessa ma il problema è che, quando lo vivi, il tutto ha una sua sequenza logica: tu cerchi un’informazione, compaiono dei punti di contatto con altri personaggi e quindi devi cercare, in quello che dicono questi ultimi, tracce di presenza di chi è l’oggetto della tua ricerca. Per cui la tua ricerca si arricchisce di pensieri, frasi riportate, informazioni per “sentito dire” e di conseguenza nuovi dubbi, nuove persone o eventi da approfondire. E sebbene scritto sembri un gran caos, nello svolgersi, vi assicuro che una logica ce l’ha. Il problema che una volta trascritta, questa logica, si perda totalmente e faccia sembrare questo scritto come un’inutile insieme di informazioni, simili ai gossip altolocati fra intellettuali.

E al lettore? Al lettore alla fine interessa quel tanto necessario a seguire questo percorso sconnesso, disorganizzato e spaiato, solo accompagnato dal piacere di una scrittura allegra, leggera e ben ritmata, nella speranza di arrivare da qualche parte. Rimarrà un po’ interdetto dalla scelta di non eliminare proprio nulla, dal vaneggio sul chiamiamo tutte queste donne, parenti fra loro, “Eva” anche se non è il loro nome (e lì ho pensato che i liquori forti fanno male allo scrittore quanto all’editor), alla scelta di parlare di un pittore non tanto partendo dall’ambientazione nel mondo in cui andrà a nascere, ma dalla storia di famiglia della moglie. Per cui, per buona parte dell’inizio, voi, Dich, scordatevelo proprio perché una volta aperto il libro pensando alla pittura, vi troverete invece in un caseificio e con una storia di famiglia matriarcale dove però ci sono un sacco di uomini. Andrete nei boschi a guardare pianta per pianta, passerete nella vita dell’autore, ascolterete la storia di Modigliani e una parziale critica delle sue opere.

Perché Ginzburg riesce meglio di Sjöberg nella ricostruzione? Non è solo una questione di documentazione ma anche altri fattori: non punta a focalizzare la sua ricerca, anche se è presente con più di un riferimento, ma ne evidenzia i risultati, calibrando le co-presenze, i personaggi storici e l’epoca e non cede alla divagazione. Ginzburg ha un obiettivo definito e lo raggiunge dosando storia ed eventi storici arricchendoli con le contaminazioni dei fattori esterni tanto quanto serve a rendere il quadro completo anche dove la storia presenterebbe lati bui per mancanza di documentazione. Anche Sjöberg ci prova, e non è la mancanza della documentazione che lo penalizza ma proprio il peso che da ai fattori esterni, alla loro presenza talmente ingombrante e dettagliata da far sembrare quella di Dich una scusa per trattare di altro e unire pensieri altrimenti sparsi a caso. Anche in questo caso, peraltro, l’obiettivo non sarebbe raggiunto, visto che ci sono pezzi, forse interi capitoli, che sono avulsi anche da questa logica.

In sostanza la sospensione del giudizio su questo libro sta proprio qui: decidere se mi basta una bella scrittura per giudicare positivamente un libro che mi si sta già appannando nella memoria oppure, come sempre, dare il valore giusto ad una mancanza di contenuti che fanno sì che un libro, che nasce proprio per raccontare una vita fornendo l’arricchimento di chi lo legge, diventi un’occasione perduta.
Ai posteri l’ardua sentenza.

Buone letture,
Simona Scravaglieri

Mamma è matta, papà è ubriaco
Fredrik Sjöberg
Iperborea, ed. 2020
Traduzione a cura di Andrea Berardini
Collana “Svezia”
Prezzo 16,50€

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