Vi è capitato mai di sentire il temine “Short Story”? Sono romanzi brevi che hanno la caratteristica di puntare sulla gestione dell’emozione e, nonostante la brevità li faccia confondere con i racconti, le short stories si presentano e vengono scritte come romanzi. Un romanzo ha dei personaggi e una sequenza di eventi, si deve andare dal punto “x” al punto “y” per ottenere un cambio di stato (anche quando non cambia nulla all’apparenza, qualcosa è cambiato!); devi conoscere a fondo i personaggi per empatizzare con loro e seguire le varie vicende. C’è spazio, il romanzo è come un infinito campo di grano di cui non vedi la fine, nel racconto non solo la vedi ma ti sembra quasi di sapere quante spighe ci siano. La short story è un campo ristretto, con ai bordi un sacco di specchi che moltiplicano l’immagine all’infinito e, tu, non riesci a distinguere dove finisca il perimetro e inizi l’immagine specchiata. Stamattina mi sono svegliata con il pensiero dell’autostrada canadese di Infinite Jest e quindi specchi per tutti, fatevene una ragione.
Quello di oggi è il resoconto unico per voi (per me è il quinto- sto migliorando eh?), di una lettura alquanto strana e fuori dalla mia comfort zone, di sette short stories, davvero belle, di cui una sola era la mia personale maledizione. Mai chiuso un libro così tante volte per prendere fiato e mai mandate tante maledizioni all’autore, dopotutto, anche se non lo do a vedere, sono una personcina sensibile. E sapete che c’è? Che nonostante abbia ancora voglia di mettere il mastice sulla folta capigliatura tittiana per avermi fatto tanto patire, quel racconto di cui ero sicura di scrivere peste e corna, all’atto di mettere in pratica su carta virtuale, è diventato il mio preferito. È la fregatura dello scrivere recensioni; la recensione, quella seria, pretende che si spieghi dettagliatamente perché si sia così entusiasti, o disgustati, di ciò di cui si sta scrivendo per garantire la bontà del giudizio. E quando metti tutte le caratteristiche di base, riducendo all’osso ciò che hai letto – è dannatamente più facile farlo se odi quello di cui stai scrivendo-, e ti accorgi che quello che hai patito ha un senso e, a volte, è più chiaro di come te lo saresti immaginato, allora e solo allora, non puoi far altro che metterti in discussione.

Diamo qualche informazione in più sulla raccolta per entrare nel mood di quel di cui si parla. È costruita su una serie di linee di cui la prima è un filo che si potrebbe tendere con la trama di un thriller o un horror. In questi generi, la storia, è un po’ come una parabola ascendente che arriva ad un punto di massima tensione, in cui c’è il momento clou, dopo il quale tutto si risolve in maniera veloce. Succede anche in questa raccolta dove c’è un’introduzione a suo modo serena (le spighe vengono da questo primo atto) che alza un po’ quel senso di malessere, di oscuro e non detto, che solitamente, nel genere thriller o horror, ti tira per la giacchetta come a dirti “Vai avanti, non sai che succede!”, per poi culminare con il racconto di cui parleremo e terminare con la storia che da il nome alla raccolta.
L’altra linea, invece, è rappresentata dalla scrittura. Come detto, trattandosi di short stories, le storie non assomigliano affatto a dei racconti; a Titta piace un sacco descrivere i suoi personaggi, si può dire che ci si affeziona anche parecchio, a volte li presenta lui, a volte lo fa fare ai personaggi di contorno; non importa quanto spazio ci sia ma, tu, quelle persone le vivi soprattutto attraverso i loro limiti: il non dire, l’attimo prima della morte, l’effetto del tempo che passa. La scrittura è un fiume in piena che ti avvolge e che ti trascina così tanto che, finita una storia, tu vai avanti perché cerchi altro, un proseguimento o una risposta.
E qui veniamo alla terza linea. In questa raccolta muore un sacco di gente, ma in effetti non muore nessuno. Titta è un po’ come Herling non gli piace vivere la morte come una chiusura definitiva, non può essere una fine ma solo un preludio a qualcosa che non si vede ma c’è. E non è solo questione che riguardi chi muore, la morte può essere il preludio anche per chi la guarda, per chi la ricorda e persino per chi la vive come un effetto artistico. La morte è un passaggio con uno spiraglio sempre aperto, tu senti l’aria che passa ma non riesci a vedere da dove arriva perché, finché non muori, non ti avvicini abbastanza e quando lo fai non puoi tornare a raccontarlo.
La storia di cui vi ho accennato qui e lì, per le motivazioni fin qui citate, sta bene dove sta ma, io, l’avrei voluta piazzata alla fine. Sì lo so che sembro una matta ma io non ero preparata, magari non lo sarei stata manco alla fine, ma visto che non è a conclusione della raccolta, rivendico il mio pensiero che non ha basi solide ma va a solo “a sentimento”. Concedetemelo.
Si chiama “Guardando al futuro con ottimismo” e, badate, è una cosa che ho scoperto dopo perché, io, i titoli delle storie o dei capitoli come anche dei quadri, non li guardo mai anche perché non me li ricordo e, invece, letto una volta mi è rimasto stampato in testa per la vita perché è la perfetta sintesi di quello di cui si parla
Siamo a Roma in una ben nota periferia. Ci sono una serie di giovani annoiati: sono giovani e sono soli e in quella fase che noi chiamiamo adolescenza, in cui non sei né carne e né pesce, e non sono un gruppo per una ragione particolare. Sono lì tutti, alla stessa ora, nella stessa solitudine che finisce dove inizia quella degli altri, senza che necessariamente queste si tocchino o si intersechino. C’è un fatto, che li interessa un minimo, c’è una conseguenza inaspettata che aumenta il numero dei soli che sono in solitudine. Sembra una palla eh? E infatti io faccio la blogger e non la scrittrice!
Il bello di questa storia è quello che sottintende. Avrebbe potuto scegliere un sacco di periferie e, invece, ne ha scelta una in particolare con lunghi filari di palazzoni tutti uguali, sospesa fra due mondi vivi, ognuno per questioni diverse. Da un lato c’è il centro storico e dall’altro un centro, sempre storico, ma più moderno. Ma da dove sono loro nessuno dei due è visibile, la vista è ostruita un po’ come quella di un adolescente che si domanda che ne sarà di lui.
Un giorno, uno qualunque tanto lì sono tutti uguali, succede un qualcosa. E’ un qualcosa di diverso, nuovo e strano, lo è perché normalmente è una cosa che non si farebbe, una cosa che il mondo verso cui stanno andando, quello adulto, disapproverebbe. È una pratica che non è vietata da una legge ma, a ben guardare, è condannabile. Il punto in sostanza, non è quel che fanno, ma l’effetto che ha su chi lo fa e chi lo vede; è ammirata al pari di una pratica artistica, che stimola la curiosità di chi guarda e che al tempo stesso è espressione di uno stato d’animo. E diventa anche un collante per il gruppo. Attenzione il trucco sta proprio nella definizione di “arte, artistico” e non di altro.
Perché l’evento artistico, o il vernissage o chiamatelo come vi pare, unisce nel guardare ma mantiene l’individualità di chi lo guarda. È qui il segreto, Titta avrebbe potuto parlare di droga, di sesso o altro, ma sceglie una pratica che è al contempo autodistruzione una richiesta di aiuto, non è molto conosciuta e rimane distante a tutti. È nell’insieme artistica perché il messaggio viene percepito e interpretato passando per i filtri personali dell’individuo che partecipa, attivamente o passivamente, al momento o evento che dir si voglia. È estrema, autodistruttiva, un qualcosa di profondamente stupido, ma descriverla permette, per lo spazio di una short story, di calarsi in quel momento particolare che risveglia il singolo senza che questo perda la sua individualità diventando gruppo.
E in questo viene fuori anche un’altra rappresentazione molto più contemporanea che un po’ ci rappresenta come la versione della società “sociale” più “asociale” della storia. Nel nostro mondo, in quello che vivono i giovani di oggi questa, in fondo, è la normalità. Ogni individuo “è” in funzione del suo apparire e del suo essere sui social, dei follower, delle presenze. Si rapporta con il gruppo mantenendo la sua individualità ma, e questo è un fenomeno che ha radici lontane, all’apparire di un qualcosa di nuovo, e non necessariamente innovativo, che spezza la linea della sua consuetudine è spinto a seguire la tendenza diventando parte di un nuovo gruppo. Finché l’interesse non si esaurisca, quell’insieme di interessi singoli, formeranno lo stesso gruppo rappresentato da Titta.
“Guardando al futuro con ottimismo” è cinico come titolo e anche come racconto, ma lo saprete solo leggendolo, ma è una chiara istantanea che racconta un mondo in uno spazio ristretto contando sul mood, come dice la definizione wikipediana, più che ad una trama ricca e affollata. Ed è qui la genialità di questo lavoro complesso che per molte sfumature mi ricorda Ira Levin. Titta mette in piedi le storie svuotandole degli orpelli che le avrebbero rese lunghe e, dalla struttura liberata, ricava lo spazio per intrecciare le emozioni del lettore coinvolgendolo nelle vicende e soprattutto nelle vite dei propri personaggi, rappresentando l’insieme come fosse uno sceneggiatore e non solo uno scrittore. E allora tu stai lì con la tua solitudine sui gradini di un palazzo che non c’è dietro, guardi dall’alto l’immagine residua di una donna che non c’è più e aspetti che una vita muoia nei liquami guardandola più come un effetto artistico che ti ricorda che, il tempo assassino, trova sempre un modo per romperti le scatole anche negli ultimi attimi di vita.
Ora due cose in più vanno aggiunte: io non amo il genere. A me questa cosa che devi stare in ansia mette proprio ansia, non c’è nulla da fare e non c’è nemmeno un modo per descriverlo meglio. Quindi il fatto che io sia rimasta talmente colpita, da aver comprato anche il precedente libro, non è una cosa per me usuale, ma trovo che abbia un approccio al genere davvero interessante e godibile e mi scoccia che ce ne siano solo due in circolazione.
L’altra è una considerazione per te lettore che, se stai pensando “Ahhh io i racconti non li leggo”, la risposta pura e semplice, in questo caso come in altri, raccolti in queste pagine, è che fai male! In particolare in questo caso, con una formula diversa dal consueto e con uno sguardo che difficilmente si può inserire in una categoria specifica. Io, questa raccolta, ho già cominciato a regalarla a chi mi capita a tiro, voi farete lo stesso… Basta solo vedere come inizia la prima storia. Fidatevi…
Buone letture,
Simona Scravaglieri
La notte comincia piano
Daniele Titta
CasaSirio editore, ed. 2019
Collana “I riottosi”
Prezzo 14,00€