Pare un po’ un controsenso che io, donna storicamente refrattaria al mezzo televisivo, abbia scelto come libro da leggere, per conoscere le proposte di Graphofeel, l’unico che riguarda non solo la TV ma proprio la RAI. E invece mai scelta fu più felice perché, per questioni similari a quelle che muovono la penna di Daniela Attilini, io so perfettamente il tono con cui è scritto questo lavoro. Daniela, che lavora attualmente per l’azienda di stato, ha imparato ad amare questo mondo fin da piccina, non tanto per la spiegazione che il padre Gianni può aver dato, ma per l’esempio che si è dimostrato per i figli e per la passione che hanno visto animargli gli occhi e aiutarlo nelle difficoltà. Gianni Attilini, figlio della Sardegna, che intorno alla metà del ‘900 sbarca a Roma chiamato a collaborare con il nascente servizio pubblico come esperto delle immagini e dei commenti del telegiornale su suggerimento di Tito Stagno -che con lui aveva già collaborato proprio in quell’isola che era stata a lungo separata dal continente sia per logistica che per cultura-, diventa lo spunto per ripercorrere una storia familiare, quella aziendale e infine anche quella sociale di un’Italia che forse non ricordiamo più.
3 Gennaio 1954: dagli studi di Milano la prima annunciatrice, Fulvia Colombo, da il via ufficialmente all’inizio delle trasmissioni della TV di Stato, indossa un lungo vestito da sera e ha una voce calda e chiara. Dice agli italiani che la sperimentazione, che va avanti già da un anno, è finita e, d’ora in poi, la RAI comincia la sua programmazione normale.
Non ci sono molti italiani proprietari di un apparecchio del genere ma è proprio da questo momento che comincia una nuova era; quell’oggetto ingombrante -fidatevi non sono così vecchia da aver visto il primo modello ma ne ereditai uno degli anni ’60 da mia nonna quando mio padre la convinse che era una bel regalo per la nipote e così lui le avrebbe potuto comprare un modello più nuovo!- è destinato a prendere il posto della radio nelle riunioni serali familiari post cena.
Tra tutti i programmi, quello del Telegiornale è il più importante e non a caso. Basta seguire il fluire dei discorsi della Attilini che ci ricorda quanta differenza ci fosse non solo da regione a regione ma anche di località in località fra gli italiani dell’epoca: gli usi e costumi nei quali si è immersi sono totalizzanti e tutto quello che viene da più di 100 km è nuovo e comunque diverso. Non ci si conosce, si parlano dialetti diversi, ci sono priorità peculiari alla vita che si vive in quel luogo, ricordi differenti e persino l’ora dei pasti è diversa! Il Telegiornale diventa quel mezzo che finalmente ci unisce e con il quale il mondo, quello difficile e costoso da raggiungere, finalmente entra in casa non solo raccontato dalla voce di Tito Stagno ma soprattutto con le immagini di luoghi, visi e storie che mai sarebbero stati così potenti se solo raccontati alla Radio.
Perché leggere questo libro, quindi? Il punto non è tanto conoscere la storia di Via Teulada, anche se ci sono notizie che mai vedrete citate altrove perché appartenenti a vicissitudini personali di famiglia, ma per il tono con cui scrive. Il punto è che da ieri ad oggi l’Italia ha subito profonde trasformazioni, passato periodi belli e momenti oscuri eppure quello che dovremmo riconoscerci è che, seppur sempre lamentosi e chiacchieroni, a volte a sproposito, gli italiani sono sempre stata gente operosa che”nonostante tutto” è sempre andata avanti anche se i mezzi a disposizione non sempre aiutavano. Il “mito” per il mondo dell’italiano che gesticola e non fa nulla non è che una mera chimera e solo chi vive qui si rende conto che, rimanere con il sorriso sempre e comunque, è cosa ben difficile molto spesso. Questo popolo di operosi discende in particolar modo da quella generazione di giovani del dopoguerra, anche un po’ visionari, che in un mondo, allora con una visione un po’ datata, hanno deciso un giorno di accettare un posto in una società che, sì era di stato, ma che si proponeva di fare qualcosa che fino ad allora non esisteva ovunque (anche in America, per capirci le prime trasmissioni sono agli inizi degli anni ’40). Non esistevano scuole di formazione per il lavoro di Attilini, né per quello di Tito Stagno e tanto meno per il lavoro di Fulvia Colombo. La TV non era la radio e richiedeva nuove professionalità tutte da creare. Bisognava studiare un nuovo linguaggio parlato e visuale perché, quel servizio reso a gente sconosciuta, fosse realmente interessante, non fosse ripetitivo e neanche noioso. Era una sfida. E quella sfida ogni giorno si rinnova, diventa ogni giorno diversa come i servizi che si propongono e, il giudizio degli altri, viene dopo quello di chi lo fa quel lavoro e che si ricorda ogni sera che si poteva far di meglio. E chi vive il mondo in questo modo diventa un esempio per chi ha l’opportunità di guardarlo, di stargli accanto e molto spesso ne sente la mancanza perché è spesso fuori a portare a casa l’ennesima prova.
Ecco, è una condizione che conosco abbastanza bene, mentre Gianni Attilini portava il mondo a casa degli italiani, mio padre e altri visionari si ingegnavano per farli chiamare i parenti migrati verso il nuovo mondo con l’Italcable. Io so come erano gli sguardi dei figli e so perfettamente che effetto faceva quando erano contenti e quando erano preoccupati, quando bisognava tornare di corsa a casa o quando invece saltavano gli appuntamenti perché erano da qualche parte a risolvere un problema importante. So perfettamente che significa l’orgoglio di appartenenza, ad un progetto e ad una azienda. Quelli che Daniela ricorda sono valori che oggi non ci sono quasi più nonostante, per ironia, oggi ci si vanti di aver cambiato il modello lavorativo del mondo del lavoro “da una visione vecchia ad una responsabilizzazione per obiettivi” e che la digitalizzazione permetta di lavorare da “nomadi digitali” – ovvero non necessariamente in ufficio-. Ecco, strano a dirsi, ma nulla di tutto ciò è nuovo, noi veniamo già da un mondo che lavorava per obiettivi ed era naturalmente connesso e mobile anche se con qualche difficoltà in più. Era il mondo di questi uomini e donne, non necessariamente legato alla TV, ma unito da quel senso di responsabilità di chi ha raccolto una sfida e la vuole portare avanti ogni giorno.
È probabilmente per questo tono, partecipato e ancora oggi stupito e ammirato, che questo libro andrebbe letto e probabilmente sarà amato come l’ho amato io. Un po’ per ricordarci che, per quelli che ci seguono, figlio nipoti che siano, è questa l’eredità che dobbiamo lasciare. Di noi non parleranno le immagini ma l’imprinting dato dell’orgoglio e della propensione a renderci sempre migliori. È un’eredità che si rinnova di generazione in generazione ma che, se mai perderà il nome di chi l’ha iniziata, continuerà ad esistere proprio perché è un modo per non perdersi nella vita e per imparare ad affrontare anche ciò che ci è ignoto.
In più è davvero un libro di soddisfazione perché scorre con uno stile di scrittura fresco e confidenziale e non si sofferma in inutili descrizioni, è pieno di una serie di informazioni che ti fanno sentire questo mondo un po’ più tuo e un po’ meno distante di come oggi si percepisce la Tv di stato, nominata solo per l’odiato canone. È stata davvero una bella lettura cui ho dedicato un pomeriggio e ve la consiglio caldamente perché sebbene, come detto, sia sensibile al tono con cui è scritto, sono fermamente convinta che questo orgoglio personale di figlia sia ben visibile a tutti. Ed è forse l’aspetto che rende più prezioso questo volume.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Quelli di Via Teulada
Daniela Attilini
Graphofeel Edizioni, ed. 2018
Collana “Forminiveau”
Prezzo 14,00€