Oggi è l’alba di un nuovo giorno per vari motivi, il primo è che WordPress ha scoperto l’allineamento giustificato (eureka!) e l’altro è che è proprio l’alba, ovvero sono le sei del mattino, e io, che da due settimane ho una recensione fatta e finita – di un altro libro – di cui non sono propriamente convinta, decido che è questo il momento giusto per parlare di “Sul fondo sta Berlino” visto che proprio di questo libro, abbiamo discusso al gruppo di lettura.
Tutto quel che leggerete si svolge in una Berlino un po’ diversa da come ce la descrivono solitamente; la città che Sirio Lubreto rappresenta è un luogo che vive e gli appartiene da anni e di cui riesce a cogliere bellezza e limite riversandoli, e in qualche modo giocandoci, in maniera discreta e pignola, nelle vicende che costruisce.
Una cosa è certa: a me Sirio Lubreto ha fatto piacere personaggi detestabili e, tra un sorriso e l’altro, per l’astrusità di certe situazioni è riuscito anche a dire cose terribili senza sembrare l’ennesimo bacchettone.
Siamo su un volo: tra i passeggeri ce ne sono solo due che ci interessano e che sono completamente diversi fra di loro. Sono talmente incompatibili che non starebbero bene nemmeno in una storia in cui sono solo seduti a fianco l’uno all’altro. Said e Felice infatti hanno il posto ad altezze differenti dell’aereo. Seppur così diversi in età, vita, lavoro e interessi, qualche cosa in comune l’hanno: hanno scelto di vivere come vivono, in barba ai consigli dei loro padri. Il peso del passato e il pensiero dei nostri protagonisti è similare a riguardo: la vita onesta e semplice non ha mai premiato e loro hanno trovato vie diverse che dimostrano che si può “essere” anche senza star lì a prender schiaffi dal destino.
Uno sta andando a Berlino per fare una consegna di cui non sentiva il bisogno ma il suo socio è convinto che sia la svolta. L’altro non sa bene perché va proprio lì, ma sente che, tornare al passato dove ha lasciato i ricordi di quand’era uno studente, potrebbe essere la chiave di volta per risolvere uno spiacevole incidente di percorso che non era previsto nella sua vita, in un certo senso, pianificata.
In mezzo, un albergo con un immenso acquario con dei pesci e, al cui centro, passa un ascensore. Ecco, i pesci c’erano ma poi sono morti e c’è stata un’indagine e una voce fuori campo, che introduce il primo atto, dice che sanno chi è stato ma hanno deciso di non dire nulla. Perché?

Il perché ve lo dovete andare a cercare da soli, perché mi sono accorta che ad un certo punto il “perché”, per me, diventa ininfluente.
La storia è divisa in tre sezioni: la prima ti da l’idea di un romanzo circolare, la seconda demolisce questa tua certezza e la terza ti trascina verso un finale di cui non ti aspetteresti l’esistenza. L’insieme attraversa i limiti di una città, che spesso ci viene descritta come perfetta, sincronizzata e organizzata, e che invece nasconde, nelle sue pieghe, quelle profonde fratture che, in altri modi e magari di altra natura, viviamo giornalmente anche noi.
L’accoglienza, la solitudine, il peso del passato e il confronto con la modernità, l’inconsistenza di battaglie fatte per un’ideologia ottusa sono temi toccati e raccontati con un pignolo cinismo ma che non per questo rendono pesante il testo.
Il pregio di Lubreto sta proprio qui: quando ti racconta che per essere un rifugiato devi “sembrare proprio un rifugiato”, l’affermazione fa parecchio sorridere ma sta descrivendo la realtà. Come anche la ripetizione di una necessità, ridicola allo stato di fatto, che appartiene alla nostra contemporaneità ovvero la necessità di “provinare tutto e tutti”.
Ma Lubreto non si ferma lì all’affermazione o ad evidenziare quella o questa tendenza, lui va oltre inserendo quel che dice in un contesto e creando una microstoria a supporto dell’affermazione, arricchendola di situazioni surreali che costeggiano pericolosamente la verità, e ridendo di gusto tu impari a guardare al “sistema” ma da un punto di vista inconsueto e molto spesso celato.
È la magia napoletana, quella di cogliere la realtà, scomponendola per selezionare i tratti più distintivi in maniera da rappresentarla in modo surreale e l’ulteriore talento sta nel rimanere lucido nel proprio cinismo senza però sembrare bacchettone e credo che ci riesca perché scrive per il piacere di farlo e in alcuni punti sembra che scriva la storia che lui vorrebbe leggere.
Quindi qui non ci sono pezzi retorici, nessuna prosa di plastica con parole astruse della serie “vedi come conosco il vocabolario!”, nessuna descrizione fatta per allungare il brodo.
Ma c’è una storia dai tratti sfumati che proprio perché sembra sfuggirti ti spinge a continuare a leggerla per capire come va a finire, personaggi realistici proprio per le loro caratteristiche umane e normali e questioni sospese che sono il pane di tutti i giorni per ognuno di noi magari in ufficio, o a casa e in generale nelle nostre vite.

Lubreto è un figlio degli anni ’70 come me e appartiene ad una generazione che non è né carne e né pesce, fatta di persone che hanno visto l’avvento della società, che viviamo oggi, con il primo Commodore ma che vengono spesso scambiati come appartenenti alla generazione precedente, da cui vengono rifiutati proprio per la loro adesione entusiastica all’avvento del nuovo mondo. Insomma ha visto il telefono a ghiera ma si trova probabilmente bene anche con lo smartphone. E questa “crepa generazionale” si vede parecchio proprio con il confronto tra padri e figli. Il limite più grande dei nostri anni sono le differenze generazionali che, prima di noi, mutavano in un periodo di tempo decisamente più lungo rispetto ai tempi odierni.
Così, le rimostranze di Said e di Felice, diventano perfettamente comprensibili perché il gap generazionale con i loro genitori non si esprime nei consigli dati ma nell’esempio ricevuto. Quel che un tempo era il “modo di vivere” si scontra, non tanto con la voglia di arrivare senza fatica, ma con una contemporaneità in cui i valori riconosciuti smettono di essere fermi, lapidari e cambiano in continuazione. Se ieri l’impiego fisso era l’unica cosa cui puntare, oggi, la precarietà e la fluidità del mondo del lavoro sono l’unica certezza.
Quindi, la stessa storia scritta da uno nato in un periodo diverso avrebbe avuto, con le stesse premesse di base, una resa differente. Invece, l’appartenenza ad una generazione spartiacque in cui i valori del passato per ragioni oggettive non possono essere applicati al presente, rende perfettamente evidente che la ricerca di una nuova identità ha dei limiti decisamente nuovi da oltrepassare per creare nuovi modelli cui riferirsi. Pasolini, negli articoli che sono oggi pubblicati in una raccolta, “Scritti corsari”, lo identificava come un mondo che rinasceva con pessime premesse, sempre più orientato allo stile americano e non in grado di opporre valori utili al mantenimento dell’identità storica nazionale. Un mondo che, perdendo le radici, faticava a riconoscersi e viveva queste profonde fratture culturali con uno sgomento che nemmeno riconosceva. Probabilmente se Pasolini avesse potuto vedere di più, oltre il 1975, avrebbe scoperto che la contaminazione americana era solo la punta dell’iceberg.

Guardando all’appartenenza generazionale di Lubreto, “Sul fondo sta Berlino”, assume una forma più chiara: il rifiuto del “metodo” del passato è forse l’unica cosa che ci ha salvato dall’essere respinti dalla contemporaneità ma, al contempo, è umano cercare ispirazione in qualcosa di certo e, seppur non trovando riferimenti adeguati, noi continuiamo prendere spunto dalle generazioni precedenti. Che sia l’ideologia strampalata e confusionaria di Sergji o che sia la voglia di riscatto da una vita che non ci ha premiato, il femminismo della “Taglia ovetti Kinder” (questo lo capite solo leggendo il libro!) tutto ciò che all’apparenza è astruso e ridicolo è, allo stato dei fatti, una caricatura di come una generazione, oggi né vecchia e né giovane, senza storia ma anche a volte senza futuro, vive la sua quotidianità sapendo che, per lasciare un’eredità valida al proprio futuro, deve trovare nuovi valori che possano resistere almeno fino al prossimo lascito.
Dicevo del Gruppo di lettura che ha visto questo come il libro del mese: il gruppo nasce in parte dalle ceneri di un vecchio gruppo che sia è separato perché ha perso la sua sede originaria, i componenti ci sono tutti, anche se in parte sparpagliati per il mondo: abbiamo la straniera dalla Spagna! L’altra componente è più giovane ed è rappresentata proprio dalla volontà di CasaSirio di leggere insieme ai suoi lettori e dall’altro lato da un gruppo di lettori che solitamente si incontra in rete su Twitter e con i quali ho letto “Cosa fanno i cucù nelle mezz’ore”. Tutte queste anime si sono ritrovate nella sede dell’editore oppure sulla sua pagina fan per il collegamento in diretta proprio per parlare del libro scelto, che per questa volta avevo scelto io, ovvero quello di Sirio. È stata una serata davvero interessante e piacevole in cui ci siamo conosciuti abbiamo chiacchierato fra noi e con l’autore collegato da Berlino e abbiamo sbirciato fra le proposte per la lettura del mese successivo. La votazione successiva ha decretato come vincitore un altro libro CasaSirio che è stato scritto da Diego Barbera e si intitola “Ti scriverò prima del confine”.
L’appuntamento quindi è per il 26 aprile ed è aperto a tutti. Il video del primo incontro, invece, è disponibile sulla pagina fan dell’editore
Libro promosso, apprezzato e consigliato.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Sul fondo sta Berlino
Sirio Lubreto
CasaSirio Editore, ed. 2019
Collana “I Riottosi”
Prezzo 15,00€