È la terza recensione in merito a questo libro ma, stavolta, non è colpa mia. Questo libro è davvero un rebus! La storia qui narrata è quella di un romanzo, ma ricalca in parte anche la vita dell’autore; il giudizio sostanziale non cambia in nessun caso, che sia romanzo o no, la storia è davvero affascinante e per certi versi anche intima, ma ad un certo punto c’è un cambio che inverte un po’ la marcia e il ritmo in cui viene narrata e si fa un po’ fatica a finirlo di leggere. Il sostanziale problema risiede nel peso specifico delle due storie che si intersecano: quella del giovane Johannes che si affaccia alla vita in un modo del tutto inconsueto e quella del Johannes adulto, oramai affermato scrittore, che si ritrova a Roma, la sua amata città di adozione, per trovare la giusta concentrazione per scrivere questo romanzo.
Non ci sono dettagli di quando è stato scritto questo libro, ma Hanns-Josef Ortheil è al momento uno sceneggiatore e scrittore, professore universitario e gemanista. È tedesco ed è nato a Colonia. Ha avuto una vita molto articolata e complessa a partire dall’infanzia: Hanns e sua madre a lungo non hanno detto una parola, ed è così che inizia anche questa storia che sembra in parte una biografia con marcati tratti del romanzo.
Un bambino è alla finestra di uno dei palazzi che circondano la piazza centrale di Colonia. Giù in strada ci sono tante persone che corrono da un lato all’altro della città, che si incontrano, si salutano velocemente e il bambino alla finestra li passa in rassegna uno ad uno finché non trova quello che gli interessa. È un uomo alto e distinto, ha un grande sorriso sincero e non appena si accorge di chi lo sta guardando alza la mano in cenno di saluto. È il segnale, il bimbo si stacca dalla finestra e corre lungo il corridoio per spalancare la porta e finire tra le braccia sicure e forti del padre in cui si sente amato e protetto. Entrano in casa, lui posa la valigetta, si toglie il cappotto, va in salotto dove trova la moglie seduta alla poltrona dove legge. Lei sorride amabilmente e gli porge dei bigliettini che ha scritto e impilato sul tavolino durante la giornata. Lui li prende e li porta in cucina dove ritornerà a leggerli non appena si sarà rinfrescato un po’.
In tutta questa lunga scena, non una parola è stata detta.

La storia di Johannes è quella di un bimbo che per buona parte dei suoi primi anni è vissuto solo attraverso i silenzi della madre e le parole e i sorrisi del padre. Ha conosciuto l’ignoranza di chi si pone con leggerezza davanti alla diversità e anche la frustrazione della difficoltà a farsi capire. La sua storia è un racconto profondo e raccolto anche di un dolore, quello che un bambino percepisce ma di cui non conosce l’origine: nessuno gliel’ha mai spiegato perché sua madre non parli, sa solo che è sempre stato così da quando ne ha memoria.
La libertà la trova solo quando vanno tutti e tre in campagna dai parenti: è lì che Johannes ha la possibilità di sentirsi uguale agli altri perché così viene trattato.
Il primo alito di libertà a Colonia arriva sotto forma di un pianoforte, il secondo si materializza in campagna grazie a suo padre e a tanti taccuini neri in cui appuntare e disegnare i significati delle parole.
La storia del Johannes adulto, che traccia la sua vita su carta cogliendo l’occasione per analizzare i passi che lo hanno condotto a scrivere con successo libri, è molto diversa: è un uomo che sa stare da solo e che al contempo ama la compagnia. La musica gli è ancora amica ma lui non suona più da anni. L’occasione è il sentire gli esercizi di Marietta, la figlia della vicina che incessantemente ogni pomeriggio prova al piano. Poi la conoscenza con la madre, la frequentazione di quella casa diventano l’occasione per riavvicinarsi ad un passato e raccontarsi ancora una volta prima con la musica insegnata alla ragazzina e poi con le parole dette a sua madre.
Sono due percorsi identici, pieni di fatti e di avvenimenti, in cui passato e presente si rincorrono o incrociano. Sono l’occasione per guardare alle cose in modo diverso, anche se sono sempre uguali e per analizzare come si è diventati e i valori realmente importanti.
È affascinate proprio per questo sguardo, per il crescendo che parte da un incipit che già ti tira la giacchetta invitandoti a proseguire la lettura. In particolare la prima metà che scorre fra le mani del lettore in un attimo ed è incentrata sui passi che Johannes deve fare per abbattere l’ultimo muro per sentirsi come tutti gli altri, il primo capriccio, la preparazione del primo viaggio: sono tutti momenti di crescita tipici di un romanzo di formazione che volge ad una continua evoluzione del personaggio. In questo, Ortheil, riesce perfettamente a rendere il senso e a riproporre una versione del tutto aggiornata del giovane di Sallinger. Johannes è un ragazzo disciplinato in quanto, come dice lui, si sente parte di una squadra e come membro fa la sua parte per il bene del gruppo stesso.

Ma poi le cose cambiano e Johannes diventa più reale, da disciplinato ragazzino che ama la solitudine per potersi ritrovare, comincia a staccarsi da gruppo a cui appartiene per spiccare il volo da solo, in cerca di una dimensione tutta sua da costruirsi. È qui che il ritmo scema, a favore della storia dello scrittore adulto che sente di dover accennare a pensieri e storie ma continua a rimandare, al prossimo capitolo o a quello successivo. Così una storia che ci prende, anche se non abbiamo la certezza di dove stia andando, proprio per il focus continuo fra necessità di appartenere e i mezzi per poterlo fare, si appesantisce e comincia ad essere necessario avere una meta; potrebbe essere la crescita del ragazzo che si trasforma in scrittore, ma quando, i tentativi di avvicinamento con la vicina di casa e il cercare di sentirsi parte di un gruppo -cosa che all’inizio dichiara assolutamente di non voler fare-, il tutto diventa un elenco sparso di ricordi e svia non poco, con il risultato che, la seconda metà, diventa meno lieve da affrontare e perde un po’ di fascino.
Non è un brutto libro, anzi è un libro consigliato ma con un appunto: è un libro che richiede pazienza, cresce pian piano e alla fine, una volta chiuso, lascia un buon sapore. Ha uno di quei finali che difficilmente non possono piacere e quindi alla fine comunque da soddisfazione, anche se non è il finale che ti aspetteresti. In sostanza il problema è che la difformità della percezione della narrazione fra prima e seconda parte sta nell’equipollenza delle storie, probabilmente se la storia secondaria non avesse sviato l’attenzione dalla prima, se si fossero congiunte ad un certo punto, come invece non avviene, il risultato sarebbe stato molto coerente. Purtroppo questo non avviene, c’è un buco di molti anni a cui si accenna ma che non ha lo stesso spazio delle due storie. Ed è questo che ha smorzato il mio entusiasmo iniziale. La prosa rimane interessante, seppur la storia non ha picchi, la percezione è quella di un ritmo battente e coinvolgente, almeno finché non si ferma; le immagini si susseguono, le emozioni vengono sviscerate e analizzate con lo stesso cipiglio che mette Johannes a ricopiare in bella copia gli appunti fatti nei campi o in giro per Colonia. Mi sarebbe piaciuto scrivere una recensione tutta positiva, ma va bene lo stesso, la prossima volta andrà meglio. Basta aver fiducia.
Buone letture,
Simona Scravaglieri
Il suono della vita
Hanns-Josef Ortheil
Keller editore, ed. 2018
Traduzione a cura di Scilla Forti
Collana “Passi”
Prezzo 19,00€